Da La Repubblica del 05/10/2003
L’ultimo filo spezzato
di Bernardo Valli
SE C’ERA ancora un filo di speranza la strage di Haifa, alla vigilia di Yom Kippur, l’ha spezzato. E adesso la tragedia israelo-palestinese può espandersi, dilagare, travolgere quei fragili, già quasi inesistenti argini creati dalla Road map, il piano di pace internazionale, che doveva condurre a uno Stato palestinese entro il 2005, e che fu solennemente avviato appena quattro mesi fa.
Di questo piano non restano che i riferimenti verbali, azzardati dai responsabili politici, americani o europei, che non osano, per legittimo pudore, ammettere il fallimento. Un fallimento dovuto alla loro ignavia, poiché era chiaro che non si poteva contare sulla ragionevolezza dei due popoli a confronto, e ancor meno su quella dei loro rispettivi governi, animati da un antico reciproco odio. Soltanto la volontà della superpotenza e il dinamismo politico-diplomatico degli altri autori della Road map (l’Europa, la Russia e l’Onu) avrebbero potuto imporre almeno l’inizio di un dialogo. E invece nulla.
Della Road map restano le fotografie del 4 giugno scorso, quando, ad Akaba, George W. Bush e i due primi ministri che l’affiancavano, l’israeliano Sharon e il palestinese Abbas (detto Abu Mazen), dichiararono in coro che si sarebbero opposti «ad ogni azione unilaterale» capace di compromettere i futuri negoziati. E il presidente americano promise in quella solenne occasione che sarebbe stato un arbitro imparziale e severo, al fine di «aiutare le due parti ad avanzare verso la pace». Nessuno ha tenuto fede agli impegni.
Certo, quel giorno, sulla sponda del Mar Rosso soffiava il vento della vittoria militare ancora calda, ancora quasi intatta, appena conseguita dagli Stati Uniti in Iraq; e l’intera regione sembrava intimidita da quella dimostrazione di forza; e quindi le parole del presidente americano esprimevano una volontà a cui ci si poteva difficilmente opporre. Quattro mesi dopo la superpotenza offre un’altra immagine di sé stessa. Risulta incapace di controllare la Bagdad liberata, dove i suoi soldati vengono abbattuti quotidianamente, e dove pare si nasconda ancora Saddam, nonostante la favolosa taglia messa sulla sua testa. Non sembra abbastanza forte per dominare la situazione nell’Iraq conquistato: è come se avesse inghiottito un boccone troppo grosso per il suo stomaco. Insomma, essa rivela una debolezza imperdonabile per una superpotenza. Di riflesso le parole pronunciate dai suoi responsabili politici sono meno ascoltate, perdono peso; i loro rimproveri, i loro richiami all’ordine non sono presi troppo sul serio, anche perché non sono più scanditi ma sussurrati; come se lo zelo di giugno si fosse esaurito e fosse cominciato un nuovo disimpegno. In Palestina e in Israele si è ritornati a pensare che non ci sia altra strada al di fuori della violenza.
La strage nel ristorante Maxim di Haifa, a poche ore dall’inizio del Yom Kippur, una delle feste più importanti per gli ebrei, un giorno di digiuno e di riflessione (in cui si confessano a Dio i peccati commessi nel corso dell’anno) è destinata a provocare forti reazioni: rischia di far straripare l’odio. La Terra Santa è un fiume in piena, gonfio di quel sentimento. Da un lato c’è un popolo che sente il dolore per la profonda ferita, per l’assassinio di tanti innocenti, in una ricorrenza religiosa che invita al raccoglimento. Il sangue versato è come un sacrilegio. Al tempo stesso al dolore si aggiunge la collera, lo smarrimento, perché la vulnerabilità era proprio una delle ataviche debolezze che gli ebrei volevano eliminare dalla loro esistenza creando lo Stato di Israele. Il terrorismo infrange il mito, anzi il dogma della sicurezza, nonostante la forza militare di cui quello Stato si è dotato.
Dall’altro lato c’è un popolo, disperato e umiliato, che esulta per la ferita inflitta all’avversario. Come se si trattasse di una rivincita ottenuta con le sole armi di cui dispone: i kamikaze. Il terrorismo non porta nessuna conquista: scatena il fanatismo, accende il desiderio di vendetta e provoca la repressione. Sotto l’impatto di un atto terroristico, il dialogo democratico e acceso all’interno della società israeliana si ferma, sia pure temporaneamente, e interviene una compattezza, una comprensibile solidarietà che spinge irrimediabilmente a esigere una dura reazione da parte del governo. Ma ai palestinesi il terrorismo dà l’impressione di esistere, di essere in grado di restituire i colpi ricevuti. La spirale è questa. Questo è il fiume d’odio che travolge gli argini della ragione.
I morti di Haifa possono essere fatali a Yasser Arafat. Il governo Sharon si è già più volte pronunciato per la sua cacciata dalla Palestina, e qualche suo ministro si è persino detto favorevole alla sua eliminazione fisica. Finora Sharon non ha osato passare all’azione. Gli americani l’hanno frenato. Gli esperti mediorientali di Washington pensavano che Arafat esule o morto fosse più pericoloso di quello immobilizzato a Ramallah. Lo pensano ancora? Le sempre più deboli reazioni alle insubordinazioni del governo di Gerusalemme lasciano intravedere un tolleranza che potrebbe rivelare un progressivo disimpegno americano. Colin Powell è stato meno energico di un tempo quando nei giorni scorsi ha richiamato all’ordine Sharon su problemi essenziali come il Muro tra la Palestina e Israele, che gli americani non vogliono, e come le colonie israeliane in Palestina, che Sharon continua a espandere e a pianificare, nonostante gli impegni assunti ad Akaba, al momento del lancio della Road map.
Da quando il primo ministro palestinese Mahmud Abbas (detto Abu Mazen) ha gettato la spugna, Washington si interessa molto meno alla tragedia israelo-palestinese. Abbas era l’uomo chiave della Road map; era a fianco di Bush ad Akaba; era l’uomo che doveva sostituire Arafat. Dando le dimissioni Abbas ha spiegato perché il piano di pace era irrealizzabile: Arafat non gli dava i mezzi per combattere il terrorismo palestinese; e Sharon non rispettava gli impegni, perché moltiplicava le colonie e faceva scorrazzare il suo esercito in Palestina. La situazione è questa ed è destinata a peggiorare.
Di questo piano non restano che i riferimenti verbali, azzardati dai responsabili politici, americani o europei, che non osano, per legittimo pudore, ammettere il fallimento. Un fallimento dovuto alla loro ignavia, poiché era chiaro che non si poteva contare sulla ragionevolezza dei due popoli a confronto, e ancor meno su quella dei loro rispettivi governi, animati da un antico reciproco odio. Soltanto la volontà della superpotenza e il dinamismo politico-diplomatico degli altri autori della Road map (l’Europa, la Russia e l’Onu) avrebbero potuto imporre almeno l’inizio di un dialogo. E invece nulla.
Della Road map restano le fotografie del 4 giugno scorso, quando, ad Akaba, George W. Bush e i due primi ministri che l’affiancavano, l’israeliano Sharon e il palestinese Abbas (detto Abu Mazen), dichiararono in coro che si sarebbero opposti «ad ogni azione unilaterale» capace di compromettere i futuri negoziati. E il presidente americano promise in quella solenne occasione che sarebbe stato un arbitro imparziale e severo, al fine di «aiutare le due parti ad avanzare verso la pace». Nessuno ha tenuto fede agli impegni.
Certo, quel giorno, sulla sponda del Mar Rosso soffiava il vento della vittoria militare ancora calda, ancora quasi intatta, appena conseguita dagli Stati Uniti in Iraq; e l’intera regione sembrava intimidita da quella dimostrazione di forza; e quindi le parole del presidente americano esprimevano una volontà a cui ci si poteva difficilmente opporre. Quattro mesi dopo la superpotenza offre un’altra immagine di sé stessa. Risulta incapace di controllare la Bagdad liberata, dove i suoi soldati vengono abbattuti quotidianamente, e dove pare si nasconda ancora Saddam, nonostante la favolosa taglia messa sulla sua testa. Non sembra abbastanza forte per dominare la situazione nell’Iraq conquistato: è come se avesse inghiottito un boccone troppo grosso per il suo stomaco. Insomma, essa rivela una debolezza imperdonabile per una superpotenza. Di riflesso le parole pronunciate dai suoi responsabili politici sono meno ascoltate, perdono peso; i loro rimproveri, i loro richiami all’ordine non sono presi troppo sul serio, anche perché non sono più scanditi ma sussurrati; come se lo zelo di giugno si fosse esaurito e fosse cominciato un nuovo disimpegno. In Palestina e in Israele si è ritornati a pensare che non ci sia altra strada al di fuori della violenza.
La strage nel ristorante Maxim di Haifa, a poche ore dall’inizio del Yom Kippur, una delle feste più importanti per gli ebrei, un giorno di digiuno e di riflessione (in cui si confessano a Dio i peccati commessi nel corso dell’anno) è destinata a provocare forti reazioni: rischia di far straripare l’odio. La Terra Santa è un fiume in piena, gonfio di quel sentimento. Da un lato c’è un popolo che sente il dolore per la profonda ferita, per l’assassinio di tanti innocenti, in una ricorrenza religiosa che invita al raccoglimento. Il sangue versato è come un sacrilegio. Al tempo stesso al dolore si aggiunge la collera, lo smarrimento, perché la vulnerabilità era proprio una delle ataviche debolezze che gli ebrei volevano eliminare dalla loro esistenza creando lo Stato di Israele. Il terrorismo infrange il mito, anzi il dogma della sicurezza, nonostante la forza militare di cui quello Stato si è dotato.
Dall’altro lato c’è un popolo, disperato e umiliato, che esulta per la ferita inflitta all’avversario. Come se si trattasse di una rivincita ottenuta con le sole armi di cui dispone: i kamikaze. Il terrorismo non porta nessuna conquista: scatena il fanatismo, accende il desiderio di vendetta e provoca la repressione. Sotto l’impatto di un atto terroristico, il dialogo democratico e acceso all’interno della società israeliana si ferma, sia pure temporaneamente, e interviene una compattezza, una comprensibile solidarietà che spinge irrimediabilmente a esigere una dura reazione da parte del governo. Ma ai palestinesi il terrorismo dà l’impressione di esistere, di essere in grado di restituire i colpi ricevuti. La spirale è questa. Questo è il fiume d’odio che travolge gli argini della ragione.
I morti di Haifa possono essere fatali a Yasser Arafat. Il governo Sharon si è già più volte pronunciato per la sua cacciata dalla Palestina, e qualche suo ministro si è persino detto favorevole alla sua eliminazione fisica. Finora Sharon non ha osato passare all’azione. Gli americani l’hanno frenato. Gli esperti mediorientali di Washington pensavano che Arafat esule o morto fosse più pericoloso di quello immobilizzato a Ramallah. Lo pensano ancora? Le sempre più deboli reazioni alle insubordinazioni del governo di Gerusalemme lasciano intravedere un tolleranza che potrebbe rivelare un progressivo disimpegno americano. Colin Powell è stato meno energico di un tempo quando nei giorni scorsi ha richiamato all’ordine Sharon su problemi essenziali come il Muro tra la Palestina e Israele, che gli americani non vogliono, e come le colonie israeliane in Palestina, che Sharon continua a espandere e a pianificare, nonostante gli impegni assunti ad Akaba, al momento del lancio della Road map.
Da quando il primo ministro palestinese Mahmud Abbas (detto Abu Mazen) ha gettato la spugna, Washington si interessa molto meno alla tragedia israelo-palestinese. Abbas era l’uomo chiave della Road map; era a fianco di Bush ad Akaba; era l’uomo che doveva sostituire Arafat. Dando le dimissioni Abbas ha spiegato perché il piano di pace era irrealizzabile: Arafat non gli dava i mezzi per combattere il terrorismo palestinese; e Sharon non rispettava gli impegni, perché moltiplicava le colonie e faceva scorrazzare il suo esercito in Palestina. La situazione è questa ed è destinata a peggiorare.
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