Da La Stampa del 23/10/2003

L'alibi della lacrima

di Mario Deaglio

E’ certamente giusto e doveroso indignarsi per i recenti disastri delle imbarcazioni di immigrati, ma a una condizione: che questa indignazione non diventi un alibi. Che le centinaia di morti per mare non ci impediscano di scorgere i milioni di morti in terre un po’ più lontane; questi secondi, infatti, rappresentano una delle cause, forse la causa vera dei primi.

Dietro alla fuga degli africani ci sono infatti la guerra civile della Liberia, dove è costume tagliare le mani o i piedi ai nemici vinti, la guerriglia dell’Uganda, dove i bambini vengono rapiti dai villaggi per essere trasformati in soldati, ci sono le vicende del Congo, dove forse un milione di profughi dal Ruanda sono come spariti nel nulla e quelle della Costa d’Avorio e del Sudan, sperabilmente in via di soluzione. Sarebbe un grave errore concentrarsi su alcune morti vicine, quasi giocare con la loro orribile spettacolarità e dimenticare tranquillamente le morti, ben più numerose, lontane dalla telecamera.

Le cause di questa guerra africana (che si potrebbe forse paragonare alla Guerra dei Trent’Anni che devastò quasi tutta l’Europa nella prima metà del Seicento) sono in gran parte africane. Mentre non è giusto addossare agli europei colpe eccessive, che vanno fermamente attribuite alle classi dirigenti di quei paesi, non si deve neppure dimenticare che la stessa Europa che si commuove per le vittime dei naufragi ha tenuto, nella recente conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, svoltasi nella città messicana di Cancún, un atteggiamento di chiusura sulle esportazioni dei paesi emergenti che sicuramente acuisce il clima di disperazione e la volontà di molti di lasciare in ogni modo il proprio paese. Anche a costo di rischiare la morte per fame o annegamento nel Canale di Sicilia.

Se qualcosa possiamo fare, quindi, non è tanto, o soltanto, pattugliare il Canale di Sicilia per salvare naufraghi (che assai spesso rimanderemo ai loro paesi dopo averli curati e rifocillati) ma chiederci seriamente se qualche nostra politica economica può combattere le cause che inducono la gente ad affrontare il rischio di simili naufragi. La famosa Tobin tax, che dovrebbe devolvere allo sviluppo delle zone povere il ricavato di un’imposizione fiscale sui grandi flussi finanziari a breve, probabilmente non potrà mai funzionare per motivi largamente tecnici; ma bisogna trovare qualcosa che la sostituisca.

Anche chi non è animato da spirito altruistico dovrebbe riconoscere che, in un mondo reso piccolissimo dalle telecomunicazioni istantanee, è meglio aiutare i progetti di sviluppo dei paesi poveri che impiegare risorse analoghe a tener lontani dalle nostre coste gli immigrati poveri e clandestini: un diverso atteggiamento commerciale e attività economiche nei paesi d’origine sono sicuramente preferibili alla spesa per i centri di accoglienza, gli elicotteri e le motovedette.

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