Da Corriere della Sera del 03/10/2003

L’Italia tra ambizioni e realismo

di Sergio Romano

In coloro che credono all’Europa e ne vogliono appassionatamente l’unità, la Conferenza intergovernativa che si aprirà a Roma domani sotto presidenza italiana suscita speranze e delusioni. Suscita speranze perché deve approvare una Costituzione, vale a dire un documento che esprime con il suo nome uno straordinario valore unitario e che renderà l’Unione simile, almeno formalmente, ai grandi Stati federali. Suscita delusioni perché il testo proposto è per molti aspetti insoddisfacente. Quando iniziò i suoi lavori, nel febbraio del 2002, la Convenzione presieduta da Valéry Giscard d’Estaing dovette constatare che il fervore di Maastricht apparteneva al passato. La moneta unica aveva creato resistenze. Gli esordi dell’euro non erano stati felici. L’economia dava segni di stanchezza. L’Europa sovranazionale era percepita come un tiranno burocratico. I movimenti nazionalisti e localisti avevano conquistato, quasi ovunque, successi elettorali. I governi e i partiti favorevoli all’Unione erano stati sostituiti da altri, più sensibili all’euroscetticismo e al concetto, fumoso ma politicamente efficace, di «interesse nazionale». Tutti sapevano che l’Ue, dopo l’allargamento e senza nuove regole, sarebbe diventata ingovernabile. Ma nessun governo era disposto a perdere altre quote importanti di sovranità. Non basta. Mentre la Convenzione era nel mezzo del suo lavoro, la guerra irachena e una dura campagna americana contro la «vecchia Europa» hanno diviso l’Unione. Valeva la pena di scrivere regole unitarie per un gruppo di Stati che su un fondamentale problema (i rapporti con gli Stati Uniti) sembrava irrimediabilmente spaccato?

Il merito della Convenzione fu di navigare abilmente controcorrente. Il progetto attribuisce all’Europa una personalità giuridica, rafforza il concetto di cittadinanza europea, estende i poteri del Parlamento, prolunga il mandato del presidente di turno, crea un ministro degli Esteri, restringe il diritto di veto dei Paesi membri, introduce il criterio democratico della doppia maggioranza (Stati e popolazione), suggerisce l’itinerario per ulteriori progressi. Ma il «salto di qualità» federale non c’è stato. Per alcune questioni fondamentali (esteri, difesa, fisco) vale ancora il principio dell’unanimità, sinonimo d’impotenza. Nessuna grande carica dell’Ue sarà eletta direttamente dai cittadini. E il potere rimarrà nelle mani del Consiglio, vale a dire di un organo intergovernativo, composto da persone per cui il collegio elettorale nazionale conta più dell’Europa.

Vi è spazio per qualche decisivo miglioramento? La risposta, purtroppo, è no. Come è dimostrato dall’articolo del ministro degli Esteri spagnolo, apparso avant’ieri nel Corriere , chi vuole riaprire il negoziato intende disfare la tela tessuta dalla Convenzione e cancellare alcuni dei progressi unitari presenti nel suo progetto. La scelta, oggi, non è fra una Costituzione federale e una Costituzione intergovernativa. E’ fra il progetto della Convenzione, ritoccato in qualche punto, e il testo, certamente peggiore, che emergerebbe da un nuovo negoziato. Ne sono consapevoli la Francia e la Germania. Ne sono consapevoli Ciampi e il governo italiano.

La responsabilità della presidenza costringe Berlusconi, nell’interesse delle sue funzioni, a un rovesciamento delle alleanze. Anziché schierarsi con Spagna, Gran Bretagna e Polonia (i membri meno europeisti dell’Unione) dovrà stare con Francia e Germania. Potrebbe ricostituirsi così il nucleo dei sei Paesi fondatori. Considerato lo scarso entusiasmo per l’Unione dimostrato sinora dal nostro governo, questo sarebbe un piccolo miracolo per il quale speriamo di dovere ringraziare le ambizioni e il realismo del presidente del Consiglio.

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