Da La Stampa del 10/11/2003

Osservatorio

Costituzione europea: a che punto è?

di Aldo Rizzo

Costituzione europea, a che punto siamo? Manca ormai un mese a quel previsto vertice di metà dicembre, conclusivo della presidenza di turno italiana. Ma la presidenza in sé dura sino alla fine dell'anno e quindi è possibile che la discussione proceda sino alla notte di San Silvestro. Anche in questo caso, manca un mese e mezzo, e non è un tempo lunghissimo, pensando alla complessità dei problemi da risolvere. La presidenza italiana ha un programma già definito per impiegarlo costruttivamente? Berlusconi lo si vede impegnato con i grandi leader planetari, abbraccia Putin, parla con Bush, e s'infila senza necessità in un'aspra polemica sulla Cecenia, ma si hanno scarse notizie su come pensi di arrivare a una conclusione entro dicembre della Conferenza intergovernativa, anche se certamente staranno proseguendo i contatti diplomatici a livello, diciamo, tecnico.

Si sa che la Convenzione presieduta da Giscard d'Estaing ha concluso i suoi lavori con un consenso sulla bozza del Trattato costituzionale. Ma si tratta, appunto, di una bozza, sulla quale l'ultima parola spetta ai governi, e non pochi di loro hanno riaperto vari temi, dal criterio di voto, nelle decisioni in cui non è prescritta l'unanimità, alla riduzione dei casi in cui l'unanimità è prescritta (quindi aumentando le possibilità di votare a maggioranza), dai rapporti tra il futuro Presidente a lungo termine del Consiglio europeo e il Presidente della Commissione, dai poteri del nuovo ministro degli Esteri europeo al numero dei commissari nell'Unione allargata (per ora a 25). Quest'ultimo tema è proposto dalla stessa Commissione, favorevole a che ogni Stato membro abbia un suo commissario con potere di voto.

«Technicalities»? Non proprio, almeno nei casi più importanti. Per alcuni Stati, è in gioco il peso della propria presenza nell'Unione, o così essi credono, anche per ragioni di prestigio e di politica interna. Vedi la Spagna e la Polonia, decise a far valere il criterio di voto stabilito a Nizza tre anni fa, che assegnava loro un peso appena inferiore a quello dei quattro «grandi» (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia), mentre la Convenzione ha ragionevolmente proposto un altro criterio, quello della «doppia maggioranza», vale a dire la metà più uno degli Stati membri, che però rappresenti il 60 per cento della popolazione complessiva dell'Ue. Questo è il caso più importante e delicato, perché Madrid e Varsavia mostrano di non voler cambiare idea, mentre è diffusa l'idea contraria, di accettare la proposta della Convenzione. Su questo si può bloccare la Conferenza intergovernativa (Cig). Le posizioni restano distanti anche su altri temi, come quello della riduzione del numero dei commissari, ma forse su questo un compromesso è meno difficile, se la Commissione, come sembra, si limita a chiedere «per ora», cioè per questa prima fase dell'allargamento, il principio di un commissario per ogni Stato.

L'altra questione delicata è quella dell'estensione del voto a maggioranza (cruciale per il futuro di un'Unione capace di prendere decisioni concrete). Nessuna illusione sul fatto che il diritto di veto, implicito nella regola dell'unanimità, cada su temi vitali come la politica estera e di difesa (contraria la Gran Bretagna, ambigua la stessa Francia), ma c'è un punto fondamentale sul quale esso dovrebbe cessare, ed è la riformabilità futura della Costituzione stessa, affinché un suo miglioramento, nel senso di un'integrazione politica maggiore, se non definitiva, possa essere ottenuto da una maggioranza qualificata di Stati, senza dover rimettere tutto in discussione con un'altra, estenuante e a quel punto paralizzante conferenza intergovernativa. E' il solo, vero punto che il presidente della Commissione, Romano Prodi, mostra di giudicare, giustamente, irrinunciabile.

La questione finale è se, per ottenere un risultato accettabile, la Cig romana debba concludersi a Roma, entro l'anno. In teoria no, ma se si va al 2004 le sue conclusioni s'intrecciano con scadenze come il rinnovo del Parlamento europeo e come, su un altro piano, le elezioni politiche spagnole. In conseguenza aumentano le probabilità di una discussione meno serena e meno produttiva, se non addirittura di un fallimento. Per questo, soprattutto, il governo italiano deve sfruttare a fondo i 30-50 giorni che restano.

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