Da Il Manifesto del 14/10/2003

Parola-chiave «America»

di Ida Dominijanni

Dove va l'America? E dove va l'immaginario europeo sull'America? Dopo la vittoria di Schwartzenegger queste due domande si fanno più stringenti. So familiar yet so unknown, così familiare eppure così sconosciuto, titolava il Los Angeles Times dopo il voto californiano. So familiar yet so unknown ci appare tutta l'America del dopo-11 settembre, quasi che il materializzarsi nelle scelte di Bush dei peggiori stereotipi su di essa coprisse come un velo la realtà di un continente sempre più sommerso e di una democrazia sempre più muta. Che tuttavia non cessa di parlare di noi: so unknown yet so familiar, potremmo dire dall'Italia berlusconiana di Schwarzenegger e della sua campagna condotta vendendo muscoli e promesse. A «reimmaginare l'America» ci conduce l'ultimo numero di Parolechiave, buon esempio di come le competenze intellettuali possano dare il meglio, in ricchezza se non in compattezza, quando sono messe sotto stress da una sequenza di eventi che scarta le certezze sedimentate e costringe ad alzare il tiro dell'analisi. La parola-chiave «America» si spezza in una serie di parole-chiave (democrazia, consenso, diritto, morale, globalizzazione, ordine mondiale, Usa/Ue), ciascuna delle quali domanda allo sguardo storico di allungarsi all'indietro e all'immaginazione politica di sporgersi in avanti. Abbandonando la ripetizione dell'antiamericanismo, che torna periodicamente sempre uguale a se stesso (Michela Nacci) e cimentandosi, problema tutt'altro che scontato del dopo-11 settembre, nel valutare che cosa significa, «per i popoli vulnerabili e tante volte vulnerati, la perdita di invulnerabilità da parte di chi si considerava invulnerabile» (Claudio Pavone).

Ci sono nella rivista almeno tre piste da seguire. La prima, disegnata da Mariuccia Salvati, riguarda la messa a fuoco dell'«evento» 11 settembre nella cronologia del passaggio di secolo. Sempre più infatti il 1989 e il 2001 si rivelano connessi nel segnare la fine dell'ordine scaturito dalla II guerra mondiale, con tutte le conseguenze che questo comporta sia per gli assetti internazionali, sia per gli assetti interni delle democrazie occidentali, sia per i criteri di legittimazione dell'agire politico. E forse solo una riconsiderazione congiunta dei due eventi può portare a una valutazione più ponderata di quello che si sta aprendo di fronte a noi. Basta leggere il saggio di Federico Romero (sul wilsonismo) per rendersi conto di come la fine dell'ordine del `45 non potesse non comportare, dopo il crollo dell'impero sovietico, anche la fine del «secolo americano». O quello di Franco Mazzei (sul confronto Est-Ovest nel Pacifico) per rendersi conto di come la fine di quell'ordine modifichi tutte le alleanze geostrategiche: indebolendo gli Usa, ad esempio, non solo sul versante dell'Europa ma anche del Giappone - l'una e l'altro segnati, dopo Aushwitz e Hiroshima, da una considerazione del rapporto fra guerra, diritto e politica diversa da quella Usa.

Qui incontriamo la seconda pista, che corre lungo il rapporto fra Usa e Europa. Due modelli, segnala Francesco Riccobono, caratterizzati da due diverse culture novecentesche della democrazia: la democrazia americana essendo basata sull'intreccio di politica e morale, quella europea sulla loro separazione. Ne consegue lì il rifiuto, qui la centralità del ruolo del diritto come garanzia della legalità democratica, con i noti effetti nella politica estera e interna americana post-11 settembre, dalla guerra preventiva fatta in disprezzo del diritto internazionale al Patriot Act emanato in disprezzo dei diritti costituzionali. E' in nome di questa diversità fra i due modelli democratici che Parole chiave (Lucia Zannino, Giovanni Gozzini) punta sul ruolo di un'Europa garante del diritto a fronte della unilateralista politica di potenza di Bush. Scommessa sensata, se non fosse che il modello normativista europeo, sottolinea Riccobono, versa e non da ora in uno stato di salute tutt'altro che perfetto, essendo non da ora attratto precisamente da quei tratti di eticismo della democrazia Usa che dovrebbe contrastare.

Il confronto ravvicinato evidenzia infatti più i tratti di crisi comune che quelli di distinta solidità. Di qua come di là dall'Atlantico, il fatto è che la democrazia è diventata un problema. Ed è di questo «problema» che Parole chiave fornisce (terza pista) un catalogo prezioso: nel saggio di Daria Frezza, sulla costruzione del consenso dopo l'11 settembre e sui suoi antecedenti storici; nella ricostruzione di Ester Fano della campagna elettorale Bush-Gore, o in quella di Pino Ferraris dello scandalo Enron; nella decostruzione di Arnaldo Testi del totem conteso della bandiera; nell'analisi incrociata di Nadia Urbinati dell'uso della forza (la guerra senza legge in Iraq) e del diritto (i tribunali senza garanzie di Guantanamo) nella strategia antiterrorismo di Bush. Dalla quale emerge che dopo l'11 settembre l'errore è sempre lo stesso: la pretesa di reagire all'evento rivelatore del mondo globale con una strategia nazionale. Un errore, nota Urbinati, che trapassa anche nel discorso del dissenso americano. Come se sia chi sta al potere sia chi gli sta contro condividesse la stessa difficoltà a uscire davvero dall'ordine concettuale, prima che geopolitico, che è finito con la fine del secondo dopoguerra.

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