Da Il Mattino del 26/11/2003

Dalla Campania all’Iraq

di Vittorio Dell'Uva

Nassiriya - Niente Rambo, e nemmeno i suoi surrogati, abitano nelle tende e negli alloggi di «White Horse», l'accampamento degli italiani. Né il pattugliamento lungo le strade nella provincia di Nassiriya induce i soldati a fare la faccia feroce. Questione di stile e di altro.

«Mai capitato, durante sei missioni all'estero, che un comandante abbia stimolato la mia determinazione al solo scopo di far emergere l'aggressività. E qui meno che mai. Noi vediamo ogni giorno la brutalità della guerra e dobbiamo confrontarci con una cultura profondamente diversa dalla nostra, cercando di trovare punti di contatto con la popolazione locale», dice il tenente dei bersaglieri Giorgio Buonaiuto, di Portici, che vive in questi giorni una preoccupazione aggiuntiva. Sua moglie Maja, conosciuta in Macedonia, sta per dare alla luce due gemelli.

Molto, naturalmente, è cambiato da quando i kamikaze hanno portato la morte nella casermetta dei carabinieri di Nassiriya. Ma riguarda soprattutto la sicurezza, che è divenuta un’ossessione, tenendo nel conto che ci sono pericoli difficile da neutralizzare e che arroccarsi per badare soltanto a se stessi non serve. «Inutile illudersi che possa esserci una difesa nei confronti degli uomini-bomba», ammette il capitano Biagio Marseglia, originario di San Nicola la Strada, che trova abbastanza inutili le polemiche sulle misure di protezione: «Non dimentichiamo che gli israeliani, con tutto il loro apparato, vengono regolarmente colpiti. Dal 12 novembre la nostra missione è diventata ancora più importante nel ricordo degli italiani caduti».

Il sergente Antonio Vitiello, di Trecase, capo meccanico del 152.mo reggimento, non può che essere d'accordo con lui. Ha partecipato alle missioni a Sarajevo e in Macedonia. Trova che la sola differenza sia lo scenario: «Alla fine si convive con il pericolo. Anche chi lavora in banca può rimetterci la vita per una rapina. L'importante è stare accanto alle persone che siamo venuti ad aiutare. Le operazioni umanitarie sono molto importanti. Anche gli iracheni rientrano tra le vittime del terrorismo, come nel mercoledì maledetto è accaduto a Nassiriya».

Di quel giorno il caporale Mauro Esposito, di Marigliano, ricorda lo sgomento e il dolore ma anche frammenti di immagine che gli fanno sperare che l'ambiente non sia diventato definitivamente ostile: «Lavoro alla sanità militare. Sono corso con altri all'ospedale dove c'erano i nostri feriti. Ho trovato molti civili che provavano ad aiutarci. ”Italia good” ci dicevano. Non ho ascoltato nessuna frase contro la nostra presenza in questo Paese».

È molto raro, in Iraq, che gesti di tale solidarietà raggiungano invece i marines, costretti ogni giorno a registrare agguati con affetti letali. Piuttosto è lo scempio dei cadaveri che rischia di diventare la norma. Il maresciallo Salvatore Cataldo, di Castel San Giorgio, su questo tema si è dato da solo una risposta che gli sembra abbastanza convincente. «Il rambismo non ci appartiene. Nessuno ci assimila agli americani, siamo utili alla popolazione civile».

Augusto Santarelli, di Gianturco, caporal maggiore del settimo reggimento trasmissioni, messo «a riposo» dalla missione Antica Babilonia, condivide senza riserve: «Forse i marines non piacciono anche per le parole che Bush pronuncia. Questa è gente sensibile. E poi non c'è un solo iracheno che ci veda come truppe di occupazione, anche se siamo costretti a mostrarci con le armi in pugno. Lo confermano gesti semplici e significativi, come il sorriso dei bambini. Dopo l'attentato mi ha ferito la razzia tra le macerie della casermetta dei carabinieri, ma è qui che noi dobbiamo restare».

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