Da Corriere della Sera del 28/11/2003

L’effetto dei cambiamenti climatici e dell’intenso disboscamento ha ridotto la superficie dell’82 per cento

«Teli di plastica per salvare il Kilimangiaro»

I ghiacciai rischiano di scomparire: progetto per rallentare lo scioglimento della neve

di Lorenzo Cremonesi

Giganteschi fogli di plastica, quelli da imballaggio con le bolle d’aria come soffici isolanti, stesi a proteggere la neve dal sole. E una montagna trasformata in esperimento epocale della lotta contro l’effetto serra e il caldo che scioglie inesorabile le riserve d’acqua congelata della Terra. Solo che non è una montagna qualsiasi, ma il Kilimangiaro, con i suoi 5.896 metri la cima più alta dell’Africa. L’idea arriva da Euan Nisbet, uno scienziato originario dello Zimbawe e oggi ricercatore presso l’Istituto di Geologia alla University of London. «Salviamo il ghiacciaio del Kilimangiaro», scrive Nisbet nel suo piano, che sta anche presentando nel corso di un ciclo di conferenze in Italia. «La protezione di plastica isolante non risolverà il problema, la neve continuerà a sciogliersi. Ma molto più lentamente e ciò permetterà di fare rinascere le foreste alle pendici del vulcano che negli ultimi decenni sono state deturpate e ridotte a semi-savana dall’incuria dell’uomo», aggiunge. E’ la risposta più fantasiosa, ma anche inquietante, alle grida di allarme che sempre più numerose dalla metà degli anni Novanta presentano quello del Kilimangiaro come un ghiacciaio malato, moribondo, addirittura destinato ad estinguersi entro il 2020.

Altro che «nevi del Kilimangiaro»! Il paesaggio della cima che fu immortalato dalla passione per la sfida con la natura selvaggia di Ernest Hemingway è già cambiato in brulla e grigiastra morena asciugata dal sole. E Nisbet non fa che ripetere dati noti. Tre anni fa Lonnie Thompson, suo collega geologo alla Ohio State University, aveva già sottolineato, dati e rilevamenti sul campo alla mano, che dal 1979 lo spessore e l’estensione della calotta ghiacciata che ricopre la cima, soprattutto nella zona del cratere, si era ridotta del 30 per cento. Ma c’era di più: dal 1912, anno del primo rilevamento scientifico con attenta mappatura della regione, lo scioglimento era stato dell’82 per cento.

Le cause? Un misto di responsabilità umane e naturali, non è chiaro con quale rapporto di casualità. Ma è evidente che l’effetto serra è lo stesso che sta incrinando le calotte ai due poli, con la formazione di enormi iceberg destinati a provocare l’innalzamento dei mari. Lo stesso che riduce le nevi sulle Ande, scioglie le alpi, obbliga gli alpinisti (come è accaduto quest’estate) a rinunciare alla normale del Cervino e alle salite classiche sul Monte Bianco perché la caduta di frane, valanghe e seracchi stravolge e rende troppo pericolosi itinerari sino a pochi anni fa ritenuti sicuri. Basti pensare che ormai da un decennio la rete di gallerie e ripari scavati nella roccia dalle brigate alpine italiane e austriache durante la Prima Guerra Mondiale sui lati del bacino glaciale della Marmolada emergono come tristi buchi neri quasi 100 metri sopra il livello della neve inesorabilmente diminuito. E la celebre «est del Monte Rosa», una delle pareti più care all’alpinismo lombardo, in molti punti ha visto frane sabbiose ricoprire anche d’inverno i canaloni di ghiaccio.

Ma alle pendici del Kilimangiaro ci sono fattori strettamente umani che condizionano il clima alle quote più alte. Basta unirsi ai trekking destinati alla cima per vedere la giungla pluviale ridotta all’ombra di se stessa. All’entrata del parco nazionale, 1.980 metri, il più celebre della Tanzania, campi agricoli e deforestazione riducono il tasso di umidità e non trattengono più l’acqua, che precipita a valle creando paludi verso il Kenya.

Dove prima c’erano giraffe ed elefanti ora sono arrivati i flamingo, gli uccelli delle zone acquitrinose mai visti in passato da queste parti. Più in alto, dopo tre giorni di cammino rallentato dalle necessità dell’acclimatamento, si arriva all’ultimo posto tappa della via normale: la capanna Kimbo a 4.700 metri. Prima qui iniziavano i «penitentes», i pinnacoli di ghiaccio lavorato dal vento tanto caratteristici delle Ande. Oggi non più. L’aria è più secca. Le foreste diradate non trattengono i venti che dalla pianura vengono fortissimi ad asciugare il clima. Ecco dunque la logica del progetto di Euan Nisbet: diamo tempo alle foreste di ricostituirsi e allora potremo levare i fogli di plastica a protezione della neve. Ma non mancano i problemi. Chi lo dice che la calotta artificiale non aumenti, invece di diminuire, il calore sul manto bianco? E i raggi del sole non rischiano di sciogliere la plastica?

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