Da La Repubblica del 28/11/2003
Originale su http://www.repubblica.it/2003/k/sezioni/politica/alemus/sofri1/sofri1.html

Il commento

La sinistra spiazzata dallo strappo di An

di Adriano Sofri

E' STRANO, no?, il sentimento di chi sa di doversi congratulare di uno svolgimento delle cose, e tuttavia, nonostante se stesso, se ne rammarica. Succede qualcosa del genere con le iniziative di Gianfranco Fini. Le quali riscuotono sinceri compiacimenti e ottusi ripudi: ma soprattutto riconoscimenti a denti stretti. Segnalerò, semplificando molto, due o tre paradossi della situazione, a destra e a sinistra.

Il primo è che, a stare alla lettera di Fini (le parole contano come fatti, in questo contesto, e del resto sono accompagnate da evidenti gesti simbolici, né le eventuali virate potranno tornare troppo indietro), Alleanza Nazionale è oggi il più antifascista dei partiti politici italiani. I partiti tradizionalmente antifascisti, forse eccedendo nel dare per scontati i propri valori, non sentono il bisogno di riproclamare solennemente e drasticamente la propria condanna delle leggi razziste.

Forse eccedendo, dico: perché era necessario che Fini, come ora ha fatto, parlasse della responsabilità del fascismo e non genericamente degli italiani; ma è necessario anche che gli altri riconoscano meno furtivamente la responsabilità degli italiani nel regime fascista e nelle stesse leggi razziste e nella loro applicazione. Perché non lo si è mai fatto abbastanza, e perché è tragicomico che se ne deleghi l'intero fardello alla riconversione antifascista di Fini. Gli altri se ne guardano, per pigrizia o per autoindulgenza, e intanto riducono decisamente il proprio bagaglio antifascista, sentendolo un po' anacronistico o sottoponendolo a qualche leale o strumentale revisione.

Di qui l'inedita scena: Alleanza Nazionale, più o meno recalcitrante, portata da Fini sulla prima linea dell'impegno antifascista. Non sto facendo una battuta facile. Io stesso, che devo ammettere una ignoranza del discorso interno e pubblico di quel partito, sono sorpreso della sua - apertura? spregiudicatezza? Sia come sia, sono parole che finiscono per impegnare chi le pronuncia, e nessuno è abbastanza cinico da non credere alle proprie stesse parole. Ho ascoltato, grazie alla Radio Radicale, la presentazione del libro di Fini sulla Convenzione europea, in dialogo con D'Alema, Casini e Amato. Ho sentito Fini citare a fondamento della propria riflessione Carlo Rosselli, e rintracciare i precedenti storici a sostegno della distinzione fra un'identità aperta del patriottismo e una chiusa del nazionalismo.

Troppa grazia, perfino, perché la storiografia segnalò presto l'ambiguità, nella nostra lingua, di un termine come nazionalismo, che conteneva tanto l'amore fraterno per la nazione caro a Mazzini quanto la sua degenerazione sciovinista e aggressiva. Non avrei immaginato, fino all'altro pomeriggio, di sentire da Fini una messa in guardia dal cattivo nazionalismo in nome del buon patriottismo: per giunta, in una stagione che assegna ad Alleanza Nazionale un ruolo di baluardo contro secessionismi e Guardie regionali. Dunque siamo a questo punto, e oltretutto è ragionevole pensare che questa operazione, pur così bruscamente spinta - con l'uno-due del voto agli immigrati e dei discorsi in Israele, benché contraddetto penosamente dalla punitiva, irragionevole e illiberale crociata sulla droga - non stia per costare a Fini un prezzo interno comparabile a quello che le "svolte" costarono, e continuano a costare, al Pci e ai suoi successivi eredi.

C'è un ulteriore garbuglio. Dalla formazione del nuovo centrodestra, la sinistra si è divisa, in pubblico o in pectore, fra una preferenza per Fini e una per Berlusconi: riservandosi ai centristi democristiani un possibile ingente futuro istituzionale, ma un secondario ruolo politico. Più esattamente, la sinistra si è divisa nel giudizio su chi dei due costituisse il più serio pericolo per la democrazia italiana. Gli sviluppi ultimi volgono l'incertezza in favore di Fini, grazie alla sua vistosa evoluzione, e ancor più all'acutizzazione dell'allarme contro Berlusconi, identificato senz'altro, personalmente e per il legame prodigo con la Lega, con l'anomalia di fondo della democrazia italiana. Però l'ulteriore paradosso, e ulteriore boccone indigesto per la sinistra, sta nel fatto che l'evoluzione oggi vastamente riconosciuta a Fini, e vidimata dopo attenta riflessione da personalità come Amos Luzzatto, è innegabilmente l'effetto lungo di una scelta di Berlusconi. Reagii allo "sdoganamento" di Fini, al momento delle elezioni comunali romane, con una vera e traumatica stupefazione. Non so voi, io forse avevo capito poco, e comunque non me l'aspettavo. Mi sembrava troppo. Oggi ci si compiace, a collo più o meno storto, del nuovo Fini, in nome della sua distanza crescente da Berlusconi: tuttavia chi richiama quel patrocinio originario di Berlusconi ha, semplicemente, ragione. Sta di fatto che il ripudio dell'antisemitismo, del razzismo e della xenofobia, e ormai dello stesso fascismo, da parte della destra continuatrice del fascismo, è un fatto di cui rallegrarsi, e tanto vale farlo cordialmente, piuttosto che a malincuore.

E veniamo al terzo e più serio e coinvolgente, per noi, paradosso: che la posizione filoisraeliana (e filoebraica) di Fini coincida con una febbre antiebraica e antisraeliana che corre sotto la pelle della sinistra. Una simpatia filoisraeliana allignò sempre nei ranghi dell'estrema destra, vincolata all'ammirazione per la prodezza e la spregiudicatezza militare dell'ebreo "nuovo", e dell'efficienza dei suoi servizi. Il ripudio del fascismo cambia di segno questa simpatia, anche quando si traduca nel sostegno indiscriminato alla durezza di Sharon. All'opposto, sempre più dentro le varie sinistre una fondata ostilità al governo di Sharon e all'azione militare israeliana si allarga arbitrariamente e senza soluzione di continuità al popolo e allo Stato di Israele, all'idolo polemico del sionismo, al fantasma ossessivo dell'ebraismo. Resto persuaso che l'antisemitismo strettamente inteso - nel quale l'ingrediente razzista, biologico, è essenziale - sia impropriamente evocato a questo riguardo. Ci sono piuttosto due fattori - l'idea del "sistema" globale, governato da una regia occulta sionista e americana, e l'idea di un razzismo colonialista israeliano contro la Palestina - che alimentano lo stato d'animo cospiratorio che attraversa le sinistre. Esso non è un dettaglio inaccettabile ma periferico, che minacci di inquinare movimenti e partiti: anzi, li mina alla radice. Si è rischiato di maneggiarlo così, come un dettaglio sgradevole, nel Forum Sociale parigino. E' un errore morale e intellettuale irreparabile. Non ha nessun pregio ai miei occhi l'argomento, antico e non per ciò meno avvilente, che non bisogni "regalare" alla destra, come peraltro va accadendo, la fiducia o la simpatia in Israele o nelle comunità ebraiche. Si persegua quello che è vero e giusto, e non se ne avrà che bene, qualunque casacca si indossi. Ma il mito della congiura globalista e la demonizzazione di Israele, insieme alla mutazione demografica d'Europa, stanno divorando la fiducia investita nella memoria della Shoah e nei suoi monumenti. L'avvicinamento fra la destra e Israele diventerà una ragione supplementare al pregiudizio di sinistra. Spero davvero di ingannarmi per miopia e tristezza quando sento pesare sul mondo un'aria da anni Trenta. E per venire alle cose prossime e piccole, vorrei dire a Sabina Guzzanti che non è stata tanto la battuta sulla "razza ebraica", un lapsus amaro ma presto rimediabile, a preoccuparmi. Piuttosto l'indistinzione, pressoché inavvertita (se non ho mal inteso), fra governo di Sharon e Stato di Israele. Del governo si può pensare e dire di tutto (anche che sia il peggior governo del mondo: ma è una fesseria, e sarebbe meglio non scherzarci su), dello Stato, di Israele, no, se non prestandosi malgrado se stessi al vivo e ravvivato desiderio di buttarlo a mare, quello Stato intruso in terra araba. Non solo l'accettazione, ma la difesa attiva e intransigente di Israele è una priorità assoluta di qualunque impegno democratico e umanistico. E' anche il limite insuperabile del sostegno al diritto palestinese a uno Stato. E' inaccettabile il pensiero di uno Stato palestinese che si compia alla condizione della destituzione di Israele. Israele, che non è "uno Stato come gli altri", come ripetono voci ingenue o sapute, illuse della propria equanimità. E' lo Stato degli ebrei, ha a che fare con la loro storia, cioè con la nostra. Queste idee semplici basterebbero a sventare una mutazione della geografia politica che ci consegni il copione parodistico di una destra democratica, filoebraica e antifascista, e una sinistra illiberale, antiebraica e antioccidentale. Alla vigilia della tempesta. Pensieri seccanti, vero?

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