Da La Stampa del 15/12/2003

E adesso, giustizia

di Igor Man

Finito. Kaputt. Khlass. Il Tiranno che gasava i kurdi (cinquemila soltanto a Halabbja, nel 1988; una Pompei asiatica) è stato raggiunto dalla vendetta kurda. Il raid delle special forces ha visto operare con gli americani un drappello di peshmerga (avanguardia della morte), i guerriglieri del leader kurdo Jalai Talabani. Come nelle «Mille e una notte» il tristo (walim) s’è docilmente arreso. Il dittatore sorpreso nel sonno ha i capelli lunghi, una barbona gli copre il volto facendolo somigliare a un ostaggio di Mesina. Lo hanno preso in una grotta-cunicolo di Tikrit, suo borgo natale. Anche il bandito Giuliano venne sorpreso in casa sua e a tradirlo fu uno di cui il Re di Montelepre si fidava in forza del giuramento del sangue (la pungitina). Pure Saddam è stato tradito, e del resto il lavoro di intelligence sul territorio è fatto anche di corruzione.

Sembra che Saddam avesse in tasca qualche aspirina e basta: niente veleno come si temeva; nessuna fialetta col cianuro fra i capelli ovvero nel cavo d’una protesi dentaria. Nel bestiale suo rifugio il Tiranno aveva per cuscino uno zainetto. Colmo - dicono - di migliaia di dollari in contanti. Si vuole che accecandolo con la torcia elettrica, la pistola spianata, il comandante del raid abbia detto: «Mister Saddam, I presume», rivisitando ironicamente la frase di Stanley all’infine ritrovato Livingstone: il massimo dell’understatement anglosassone. Sia come sia, le parole che ci ricorderanno la cattura di Saddam son quelle scandite ai giornalisti dal generale Ricardo Sanchez, il comandante delle forze americane: «Roll on the video, please» (manda il video). Le immagini di Saddam barbuto, lo sguardo erratico, i gesti concilianti, che mansueto lascia gli controllino i denti hanno definitivamente convinto la stampa: infine è giunto il Dna.

La cattura di Saddam dopo otto mesi di latitanza è certamente il trionfo che mancava alla vittoria (militare) angloamericana. Ora i vincitori sono attesi alla prova più forte: il processo al Tiranno. Saddam non era certo amato, lo odiavano in troppi, gli stessi palestinesi non è che stravedessero per lui, la sua cattura (dieci ore in tutto) era scontata per la gente irachena: gli arabi hanno un loro specifico realismo che, quando scatta, riesce persino a forare la dimensione onirica in cui vivono. Non ingannino gli energumeni che sparano «in segno di giubilo» (sono sollecitati dai cameramen) né i cortei che qualcuno sta già organizzando. Tutto si giuoca in tribunale. Il verdetto dovrà sigillare un processo onesto. Niente «spirito di Norimberga», quel sottile veleno (per altro comprensibile) che inquinava i vincitori non si dovrà neanche sospettare. Come dicono gli inglesi «facts are stubborn», sono testardi: non basterà tuttavia contestarli, bisognerà dimostrarli. Ce lo impone la nostra cultura, ce lo suggerisce un elementare buon senso. Non la cattura di Saddam l’infame ma un verdetto inattaccabile riusciranno (forse) a fare implodere la piccola guerra che svena i GI, svuotando la cosiddetta «resistenza terroristica». Se è vero che nel Vicino Levante tutto si tiene, è possibile che il (giusto) processo, in tempi brevi, a Saddam rinvigorisca l’impegno di Bush per la pace in Palestina. C’è solo da augurarsi che questa straordinaria occasione non vada sciupata.

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