Da Le Monde del 16/12/2003

I nodi lasciati irrisolti dalla commissione che ha lavorato sulla questione del velo nelle scuole

Francia, i rischi della legge sulla laicità

di Jean-Marie Colombani

La Francia chiude il 2003 in modo curioso. Meno di due anni dopo il terremoto del 21 aprile 2002, l’elezione presidenziale è all’ordine del giorno: nel Ps come nell’Ump - che furono causa e vittime di quell’infarto democratico - la corsa è ripartita, come se nulla fosse, come se non avessero tratto lezione alcuna. Nel momento in cui il mondo, la sua complessità, le sue sfide e i suoi disordini richiedono la mobilitazione di un Paese tra i più ricchi e i più potenti, una parte delle sue élite s’interroga compiaciuta sul suo declino, con un atteggiamento distruttivo e insieme narcisistico. Infine, quando ci sarebbero tante questioni vitali con cui animare il dibattito pubblico - la persistente disoccupazione di massa, la ripresa economica che si fa attendere, l’Europa che si divide, le riforme che segnano il passo - ecco che un’unica questione sollecita passioni e attenzioni, con una unanimità largamente ritrovata da François Hollande a Jacques Chirac: la laicità.
Nessuno nega che questo sia un problema autentico. O, piuttosto, una serie di problemi, e questo plurale è già un modo di rendere più complesso il dibattito là dove, spesso, lo si vorrebbe semplificare. Il velo, perché - al diavolo l’ipocrisia! - è di lui che si tratta (e non di religioni in generale), questo velo portato da giovani donne musulmane, abbraccia situazioni diverse.

Può essere imposto, scelto o rivendicato. Imposto da quell’ordine patriarcale e maschile che, come ha appena ricordato a Oslo l’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, è al centro dell’oppressione delle donne nel mondo musulmano ben più dell’Islam in sé e per sé. Scelto da donne che, paradossalmente, sostengono di trasformare questo simbolo di sottomissione in un mezzo di protezione, cioè di emancipazione dalle tutele familiari, e così riescono ad aprirsi una loro strada, scolastica e professionale, nella modernità.. Rivendicato infine da un discorso militante e da pratiche estremiste, dove il rapporto personale con il velo viene trasformato in arma collettiva di propaganda di un islamismo radicale i cui valori sono anti-umanisti e anti-democratici.

Nelle sue tre dimensioni, questa realtà testimonia delle contraddizione e dei soprassalti di una doppia integrazione: quella dei francesi figli dell’immigrazione dal Maghreb e quella dell’Islam nel nostro paesaggio religioso e culturale. In un momento in cui, poi, l’area geopolitica di riferimento dei monoteismi - il Vicino Oriente - è nelle spire di un dramma che sembra senza fine e che resta, per il momento, senza speranze tangibili, queste tensioni mettono tre volte alla prova la nostra società.

Mettono alla prova, innanzitutto, i suoi servizi pubblici, dalle scuole agli ospedali, e il loro personale che, di fronte a situazioni conflittuali e inedite, si sente abbandonato alla sua sorte o alla sua capacità di improvvisazione da responsabili politici indecisi o indifferenti. In secondo luogo, le donne, che giustamente si sentono aggredite da gesti che rimettono in discussione un principio di uguaglianza acquisito a caro prezzo e ancora ben lungi dall’essere rispettato: un grande passo indietro della causa femminista. Infine, i valori di antirazzismo della Repubblica, attaccati frontalmente dalle inquietanti manifestazioni di un nuovo antisemitismo portato dall’islamismo radicale.
Un’immagine fedele, onesta e scrupolosa di questa situazione si trova nel rapporto della Commissione sulla laicità presieduta da Bernard Stasi. Rivendicando una laicità aperta - tradotta in proposte per un autentico riconoscimento dell’Islam francese -, Stasi non cede mai al semplicismo. In compenso, la Commissione ammette di allontanarsi dalla complessità quando torna alla sua proposta fondamentale, una legge che proibisca nelle scuole «gli abiti e i segni che manifestino un’appartenenza religiosa o politica». «La questione - scrive la Commissione - non è più la libertà di coscienza, ma l’ordine pubblico». Si tratta dunque di reprimere per combattere una minaccia. Prudenze e precauzioni sono inutili, qui l’impegno è politico: designa un avversario senza nominarlo, il che svela l’imbarazzo della commissione sul divieto dei «segni politici».

Non il velo ma l’islamismo. «Il clericalismo, ecco il nemico!, diceva sin dal 1877 Gambetta, prima di aggiungere: «Quello che occorre, è segnalare e denunciare sotto la maschera trasparente delle dispute religiose, l’azione politica di una fazione politica». E’ chiaro che, in fin dei conti, la questione che ci viene posta è simile: «L’islamismo, ecco il nemico!...». Lo dice bene Elisabeth Badinter - che fu, con altre donne, all’origine di un manifesto che nel 1989 precorreva i tempi denunciando una «Monaco dell’educazione» a proposito del primo caso di liceali con il velo - quando spiega che noi viviamo «un momento storico» in cui è tempo di dare «un colpo di freno alla pressione dell’integralismo islamico».

Che sia un avversario, non ne dubitiamo. Che sia il nemico centrale, cardinale e primario da indicare con urgenza ai nostri concittadini, ne siamo meno certi. Del resto l’uomo incaricato della sicurezza del Paese, dunque della lotta contro la forma radicale dell’islamismo, Nicolas Sarkozy, non ritiene necessaria una legge. Da questo punto di vista il dibattito di oggi - legge o no - ricorda quello che lacerò il campo dei sostenitori di Dreyfus a partire dal 1902, quando «il buon Combes» lanciò, con la sua legge sulle congregazioni, l’offensiva anticlericale.
Ai meno informati sull’antisemitismo propalato da una Chiesa al culmine del suo conservatorismo, ricorderò che quei partigiani di Dreyfus della prima ora che erano Bernard Lazare e Charles Péguy si dissociarono da Jean Paurès e dai socialisti, rifiutando quello che a loro sembrava un attacco alle libertà individuali e una legge di opportunismo politicante.

La legge oggi proposta rassicurerà i dipendenti pubblici che si trovano di fronte al velo e all’ideologia che, a volte, lo accompagna. Conforterà anche i francesi musulmani, che non ne possono più di essere assimilati a un Islam intollerante. E per finire, sarà, per i più militanti tra i nostri concittadini, un’arma nel combattimento politico contro l’islamismo.

Questa legge non è priva di rischi. Ne vedo almeno tre. Il primo: lanciare un messaggio di arretramento della laicità, attraverso l’affermazione di una laicità chiusa a scapito di una laicità aperta, sebbene la Commissione Stasi cerchi di evitare questa trappola - ma che cosa avverrà in pratica? Il secondo: stigmatizzare, marginalizzare ed escludere una parte della popolazione nel momento stesso in cui il Paese ha più che mai bisogno di integrazione, dunque di politiche di integrazione, mentre l’Europa intera deve preparare e organizzare nuove ondate migratorie. Infine - e soprattutto - vedo il rischio di aprire sotto i piedi della democrazia francese una nuova trappola politica. Sappiamo bene per esperienza come, facendo dell’insicurezza la questione centrale del dibattito pubblico, ponendola come questione astratta senza cause sociali, economiche e urbane, la nostra società ha spianato con le sue stesse mani la strada a Jean-Marie Le Pen e creato le condizioni di un faccia-a-faccia di lungo respiro tra destra ed estrema destra. Rischiamo di apprendere presto - alle prossime scadenze elettorali - come, facendo dell’identità la questione-chiave dei tempi attuali, avremo di nuovo lavorato a favore di quello schieramento.

C’è un’altra trappola che la Commissione Stasi non ha saputo evitare e che riguarda soprattutto la causa delle donne: la laicità contemporanea, aperta ma anche esigente, si dovrebbe - si deve - costruire, tra l’altro, nelle scuole. Correre il rischio di una legge-sanzione che finirebbe per escludere (le ragazze, non i ragazzi), significa, in ultima istanza, negare la laicità, le sue opportunità e le sue virtù ... in nome della laicità. Chi ci rimetterebbe? Di quali punti di riferimento disporremo se l’accumulazione bizantina di una giurisprudenza interpretativa complessa e, inevitabilmente, contraddittoria, appesantirà progressivamente una legge che sarà già, di suo, discriminatoria, nonostante la buona fede di una parte dei suoi ispiratori?

E’ ovvio che noi speriamo di essere smentiti dai fatti. Ma come non ascoltare l’appello lanciato su Le Monde nei giorni scorsi da Farid Laroussi («Perché sono diventato americano»): «L’integrazione, per noi francesi di origine maghrebina è il teatro del tradimento»? La Francia, aggiungeva, «in mancanza di nemici dichiarati, si diverte a spaventarsi dei suoi stessi cittadini: noi. O piuttosto: loro».

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