Da Il Manifesto del 18/12/2003

Laicità

Velo della Repubblica

di Ida Dominijanni

«La laicità è inscritta nella nostra tradizione. Sta al cuore della nostra identità repubblicana. Non si tratta di rifondarla, né di modificarne i profili. Si tratta di farla vivere restando fedeli ai valori della Repubblica... La laicità è un pilastro della nostra Costituzione. Non tollereremo che, coprendosi dietro la libertà religiosa, si contestino le leggi e i principi della Repubblica». Jacques Chirac usa toni e parole solenni, di quelli che si riservano ai momenti in cui è in gioco la tradizione dell'Ottantonove, per motivare la sua richiesta al parlamento della legge contro l'uso «ostentato» di simboli religiosi nelle scuole, negli ospedali e in tutta la pubblica amministrazione. E tanto più suonano alti, solenni e pieni di senso delle istituzioni questi toni in un paese come il nostro, dove il parlamento ha appena votato a grande maggioranza una legge come quella sulla procreazione assistita che della laicità dello stato è una cruda smentita. C'è di che sentirsi rassicurati. Ma c'è davvero? Il presidente francese ha un nemico bene identificato, «le rivendicazioni identitarie o comunitarie sempre più esacerbate che rischiano di sfociare nel ripiegamento su se stessi, nell'egoismo e perfino nell'intolleranza». Sono rischi ben noti in Francia come in tutti gli altri paesi alle prese con l'immigrazione postcoloniale, o dovunque la globalizzazione abbia già presentato il conto dei durissimi conflitti culturali, etnici e religiosi che la sua antropologia meticciata porta con sé, facendo saltare le regole nazionali della cittadinanza e mettendo a dura prova i principi dell'universalismo. L'interesse del caso, tuttavia, sta nel fatto che stavolta è chiamata a rispondere la nazione che di quei principi incarna l'origine; e infatti è ad essi che Chirac ricorre, opponendo alle derive comunitariste e identitarie la tradizione dell'integrazione, dell'uguaglianza, della tolleranza, della «lotta senza quartiere» al razzismo, alla xenofobia, all'antisemitismo. Cittadinanza e universalismo, encore; e la laicità come bandiera contro «tutto ciò che separa», garanzia di neutralità di uno spazio pubblico in cui la «società mista» possa incontrarsi senza barriere. Funzionerà?

Nulla lo garantisce, perché in Francia come altrove non siamo alla prima generazione di immigrati, e nelle banlieu le sirene dell'integrazione e dell'assimilazione non funzionano più come un tempo. Un velo, una kippa o una croce possono significare molte più cose, sovrapposte e contraddittorie, di una fede religiosa o di una sottomissione ad arcaiche regole comunitarie: conflitti di classe e di sesso contro una cittadinanza svuotata, rivendicazioni di diversità contro un'eguaglianza truccata, riscritture soggettive libere di antichi segni di oppressione. E per ciascuna di queste linee di frattura e di conflitto, l'identità della Repubblica francese che Chirac impugna, e più in generale l'identità occidentale, non è la soluzione: è il problema.

Non abbiamo ricette pronte per i problemi che l'antropologia del mondo globale ci pone. Altre soluzioni altrove sperimentate mostrano anch'esse la corda: il multiculturalismo americano, con e senza melting pot, ha scontato i suoi limiti nell'11 settembre, quello olandese nell'assassinio di Fortuyn. Più che sulla pluralità e la molteplicità Chirac torna a puntare sul cemento unitario della Repubblica e dello Stato. E' un'altra differenza strategica fra le due sponde dell'Atlantico, non meno cruciale di altre nella competizione fra il modello europeo e quello americano, dentro la crisi comune del modello occidentale.

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