Da Il Manifesto del 19/12/2003

Un dittatore nella terra di nessuno

Il processo per Saddam Hussein e l'eventualità della pena di morte nella catastrofe del diritto internazionale, l'uso della foto del «barbaro» catturato a risarcimento di quelle dell'11 settembre, l'i

di Ida Dominijanni

Pena di morte sì, pena di morte no: sul destino di Saddam Hussein anche l'ultimo tabù della civiltà giuridica europea vacilla e si riconverte in un frivolo optional (si veda La Stampa di ieri). La coalizione anglo-americana è divisa: George Bush non ha dubbi nel chiedere la pena capitale, Tony Blair la rifiuta. Diviso anche il consiglio di governo iracheno, che agisce sotto la temporanea «sospensione», decisa dagli occupanti, della pena capitale prevista dal regime di Saddam. Contrarie le Nazioni Unite, ribadisce Kofi Annan. E per paradosso, contro il patibolo nel caso di Saddam si dichiara il presidente iraniano Khatami, viceversa favorevolissimo in casa sua. Il tutto mentre restano nella massima incertezza il tipo di tribunale e la sede in cui Saddam verrà processato. Anche questo atto della guerra in Iraq, come tutti quelli precedenti, è destinato a svolgersi fuori da ogni cornice di diritto internazionale, e senza alcuna bussola di carattere etico? E non rischia di trasformarsi nell'ennesimo boumerang per la «civiltà occidentale», in nome della quale la guerra all'Iraq è stata condotta? Queste e altre domande a Massimo Cacciari.

Processo e pena per Saddam Hussein. Che l'imputato sia un dittatore basta a sospendere ogni garanzia dello stato di diritto e del diritto internazionale?
«Tutta questa guerra è stata una catastrofe - in senso letterale, né positivo né negativo - del diritto internazionale nato dalla seconda guerra mondiale. Oggi come oggi dobbiamo attrezzarci a muoverci in una sorta di terra di nessuno, a meno di trincerarci in una insensata nostalgia: «quel» diritto internazionale non si può più restaurare, mentre un nuovo assetto geopolitico da cui far scaturire nuove norme non è neanche all'orizzonte. In questa terra di nessuno non c'è certezza della pena come non ci sono reati chiaramente definiti: vige l'occasionalismo puro, e le pene diventano pura espressione di libero arbitrio. In base a quale diritto positivo Saddam Hussein verrà processato e condannato? E da quale tribunale? Sarà giudicato da un tribunale iracheno in base alla legge irachena, da un tribunale internazionale allestito ad hoc, dalla corte penale internazionale che sta processando Milosevic, o dagli Stati uniti che quella corte si rifiutano di riconoscerla? E gli Stati uniti lo giudicheranno in base alla legge del Texas, che prevede la pena di morte, o di uno stato che non la prevede?»

Ufficialmente gli Stati uniti dicono che lo deve giudicare un tribunale iracheno.
«Sarebbe forse la soluzione migliore: un tribunale iracheno, fatto di giudici iracheni, secondo le leggi - peraltro allo stato attuale assai incerte - irachene. Ma se usciamo dal formalismo giuridico, è del tutto evidente che nei fatti saranno gli Stati uniti a giudicare il nemico prigioniero, o a decidere come dev'essere giudicato. Come vedi siamo nel regno del libero arbitrio.»

E nel caso che si istituisse una corte ad hoc, sul modello del tribunale di Norimberga?
«Ci troveremmo di fronte alla riedizione della più classica giustizia dei vincitori. Non ne usciamo: fintantoché il mondo non assumerà un nuovo equilibrio, imperial-unipolare o poliarchico-multipolare, non avremo un nuovo diritto internazionale.»

Ti si potrebbe obiettare però che il diritto internazionale serviva precisamente a questo, a contenere i conflitti geopolitici all'interno di una cornice legale, e a non far riprecipitare il mondo nello stato dei puri rapporti di forza. Detto in altri termini: è la forza che fa il diritto o è compito del diritto regolare la forza? Viene prima la politica o la legge?
«La politica, com'è sempre avvenuto. Vecchia questione, sulla quale marco la mia distanza dal massimalismo giuridico. Io sono sempre più convinto dell'antica massima hobbesiana: auctoritas facit legem. L'idea che l'autorità possa essere imbrigliata dalla legge è stata smentita dai fatti - e le smentite della storia conteranno pure qualcosa, o no?. Il guaio, oggi, è che abbiamo a che fare con una autorità che non fa la legge. Gli Stati uniti sono una potenza planetaria che agisce senza fondarsi su una sovranità legale. Checché se ne dica, gli Stati uniti sono ben lungi dall'essere un impero: fanno a meno della formalizzazione giuridica della propria potenza. Non riescono a tradurla in diritto, e non vogliono farlo. Tant'è vero che ormai legittimano le guerre con il solo argomento della difesa preventiva, neanche più con quello delle operazioni di polizia internazionale.»

Il ministro Martino ventila l'ipotesi che l'Italia si costituisca parte civile nel processo a Saddam, che ne pensi?
«Mi pare un'assurdità. Non capisco. C'è stata un guerra contro un efferato ditattore, sì, che però non mi risulta si sia macchiato di genocidio contro il popolo italiano: ha solo combattuto - anzi, non ha neanche combattuto - contro gli Stati uniti e la loro coalizione. A meno che non si dimostri la sua complicità con gli attacchi dell'11 settembre, caso in cui parte civile sarebbero semmai gli Stati uniti...»

Le operazioni di «difesa preventiva» lavorano molto pesantemente anche sul piano simbolico: la foto del dittatore stanato è un manifesto che vale più di cento battaglie vinte...
«Quella foto ostenta la quintessenza del rapporto arcaico con il nemico. Siamo a questo, in Occidente: mostriamo la testa del nemico come un trofeo. «Il volto sanguinante della vendetta», diceva Hegel. Sta venendo a galla una spaventosa regressione nell'uso dell'immagine, un simbolismo primitivo da età neolitica. Accompagnato da una totale mancanza di pietà nei confronti del nemico. Non capisco come facciano le Chiese a predicare verbum con tanta timidezza, in proposito. Un laico miscredente come me resta esterrefatto di fronte a questo sintomo chiaro di un processo di scristianizzazione totale, giustificato con tecniche di orripilazione. D'altra parte è vero che quell'immagine è stupefacente, alla lettera «meravigliosa»: chi ha deciso di usarla è un genio della comunicazione e degli effetti speciali.»

In una intervista alla Abc, Bush ha detto che l'hanno usata «per mostrare la verità, far vedere a tutto il mondo che quel barbaro viveva in un buco, in fuga».
«Ha ragione. Anzi, quella foto è molto più vera della verità. Trasmette la verità di una potenza che può disporre in questo modo del nemico, la verità delle sue intenzioni. Del resto, dopo l'11 settembre la potenza ferita è a caccia di una immagine che possa reggere il confronto con quella degli aerei che si infilano nelle torri. Non ci siamo ancora, ma la direzione è quella. Manca la foto di bin Laden acchiappato. O di un ingresso trionfale, molto più trionfale di quello che c'è stato, degli americani a Baghdad. C'è perfino da augurarsi che questa immagine venga presto trovata, se vogliamo che in Iraq lo stillicidio dei morti ammazzati si fermi.»

Immagine per immagine: quanto ci ha rimesso l'immagine dell'Occidente dall'11 settembre in poi, malgrado lo sbandieramento dei valori occidentali?
«Quale Occidente? Al di là dello sbandieramento da festa del palio, è chiaro che di Occidente ce n'è almeno due, e su entrambi c'è poco da essere trionfali. C'è l'Occidente-America, che va per la sua strada con decisione, spietata ma anche coraggiosa. E c'è un misero Occidente-Europa, col suo amletismo d'accatto su qualsiasi questione. A cominciare da quelle su cui l'Europa ha le maggiori responsabilità: Gerusalemme in testa, che è un genuino prodotto della storia e dei misfatti europei. Su questo gli americani hanno non una, ma mille ragioni di rancore verso l'Europa.»

A proposito di Occidente-Europa: giusto l'altro ieri Chirac ha «sbandierato» la laicità dello stato come terapia dei conflitti multiculturali.
«Un esempio del carattere contraddittorio dei segnali che l'Europa emette. Sul multiculturalismo navighiamo fra bossismo, buonismo, giacobinismo: una sgangherata arlecchinata ideologica. La ragione vera del fallimento della Convenzione sta qui, non nelle mancate alchimie di ingegneria istituzionale.»

Paradosso Khatami: possibile che sullapena di morte a uò essere che sulla pena di morte a Saddam l'Iran sia più «garantista» degli Stati uniti?
«Lasciamo perdere. Mi ricordo bene dei miei studenti di architettura che partirono da Venezia per tornare in Iran dopo la morte dello scia, e dopo pochi anni furono fucilati. Non accetto lezioni dai fondamentalisti riformisti.»

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di Lorenzo Cremonesi su Corriere della Sera del 19/12/2003
 
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