Da Il Messaggero del 20/01/2004

Forza Italia colmò un vuoto. E vinse

di Giovanni Sabbatucci

FORSE nemmeno i dirigenti e i militanti di Forza Italia, nel momento in cui si apprestano a festeggiare il decennale del partito fondato da Silvio Berlusconi, hanno ben chiara l'eccezionalità dell'evento verificatosi in Italia tra la fine del 1993 e i primi mesi del 1994. Un evento che già figura, e continuerà a figurare in futuro, nei testi di storia e nei manuali di scienza politica.

La straordinarietà del caso sta in primo luogo nella genesi del tutto anomala di quel partito, costruito, come tutti sanno, sull'intelaiatura di una preesistente organizzazione aziendale, quella di Publitalia. Si erano visti, in passato, partiti nascere da associazioni sindacali o confessionali, da cenacoli intellettuali o da movimenti di piazza, da milizie armate o da sette clandestine, dalle lotte per l'indipendenza di interi popoli o dal bisogno di autotutela di minoranze etniche o religiose. Mai si era visto un partito generato in linea diretta dai quadri di un'impresa: la definizione di "partito azienda" assegnata a Forza Italia si riferisce a questa genesi anomala, prima ancora che al carattere "patrimoniale" del partito, così fortemente segnato dall'impronta del suo fondatore da non apparire sempre in grado di distinguere, nella sua azione quotidiana, gli obiettivi pubblici da quelli privati, appunto "aziendali", dell'impresa di riferimento.

L'altro aspetto eccezionale della vicenda sta nell'incredibile brevità del percorso che portò Forza Italia alla vittoria nelle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994 e quindi alla conquista per il suo leader della presidenza del Consiglio ad appena due mesi dalla fondazione ufficiale del partito e a quattro mesi dal primo annuncio della "discesa in campo" (23 novembre 1993): un annuncio, occorre ricordarlo, che era stato accolto dai più con un misto di stupore, di allarme e di diffuso scetticismo. Anche in questo caso non si trovano precedenti nella storia del Novecento: qualche analogia c'è forse col Partito popolare di Luigi Sturzo, nato nel gennaio del '19 e affermatosi col 20% dei voti nelle elezioni del novembre di quell'anno. Ma fra la prima e la seconda data erano passati dieci mesi e il Ppi aveva alle spalle il grande patrimonio culturale e organizzativo dell'Azione cattolica, oltre all'appoggio discreto delle gerarchie ecclesiatiche. Il "partito azienda" di Sivio Berlusconi pareva invece nascere dal nulla e crescere in totale assenza di radici ideali e di insediamento sul territorio. Ma la sua forza, non sembri un paradosso, stava proprio nel vuoto in cui si muoveva e che cercava di colmare.

Era infatti accaduto che la crisi dei partiti della Prima repubblica avesse come desertificato l'area dell'opinione moderata e conservatrice, lasciandola quasi totalmente priva di rappresentanza; e che gli eredi del vecchio Pci si presentassero, nonostante le vistose ammaccature, come l'unica forza organizzata capace di fungere da fulcro di una nuova coalizione di governo. Le superstiti forze moderate, vecchie (la Dc di Martinazzoli) o nuove (il patto Segni), non volevano saperne di "fare la destra" (cosa ritenuta in sé disdicevole), ossia di occupare il polo moderato di quel sistema bipolare che il referendum del '93 e la successiva legge elettorale maggioritaria avevano di fatto creato nel generale entusiasmo dei novatori di ogni parte politica. Si credette, in base a una logica ciellenista del tutto contrastante col principio dell'alternanza, che la vera divisione fosse quella fra il vecchio e il nuovo (o fra gli onesti e i disonesti) e si dimenticò l'esistenza di una buona metà del paese, che, a prescindere da ogni altra considerazione, non voleva l'avvento della sinistra al governo.

Quello che non capirono i Segni e i Martinazzoli lo capì Berlusconi, consigliato da un manipolo di intellettuali (primo fra tutti il politologo Giuliano Urbani, che di Forza Italia può essere considerato il vero inventore). E a questa intuizione si dovette essenzialmente la buona riuscita dell'audace progetto. Certo, altri fattori aiutarono: le televisioni, ovviamente, poi il mito dell'imprenditore di successo, la stessa discutibile insegna patriottico-calcistica assunta dal nuovo partito; e infine la voglia di tanti italiani di lasciarsi alle spalle le asprezze moralistiche del precedente biennio "giacobino". Ma la vera chiave del successo, altrimenti inspiegabile, di quell'operazione politica stava proprio nell'aver scelto il momento giusto per colmare un clamoroso vuoto di rappresentanza: «La politica scrisse tanti anni fa Angelo Tasca ha orrore del vuoto».

Non altrimenti si potrebbe capire come un partito leggero, privo di strutture territoriali e persino di stabili gerarchie, abbia saputo non solo conquistare fulmineamente, ma anche durevolmente mantenere un suo spazio politico-elettorale; come una formazione da molti ritenuta finta (il famoso "partito di plastica") abbia saputo sopravvivere a più di sei anni di opposizione e riproporsi nel 2001 alla guida del governo. Una realtà che può piacere o non piacere, ma che è ormai parte integrante del paesaggio politico italiano e tale promette di restare negli anni a venire: anche a prescindere dalle possibili (e probabili) battute d'arresto elettorali e dalle personali fortune del fondatore.

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