Da Famiglia cristiana del 11/01/2004
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0402fc/0402fc28.htm
Dopo l’uccisione del nunzio, minacce alla Chiesa
Testimone di pace
Mons. Courtney si era impegnato a favore dell’accordo tra il Governo e l’opposizione armata, spingendo alla trattativa i ribelli del Fronte nazionale di liberazione.
di Luciano Scalettari
«La pace ha fatto di recente qualche progresso, in Burundi. Talvolta questi passi avanti sembrano improvvisi, quasi senza ragione. In realtà avvengono perché uomini come monsignor Michael Courtney hanno lavorato nell’ombra, nel silenzio, nella rete di incontri e colloqui tessuta di giorno in giorno. Courtney, uomo semplice, concreto, instancabile, era veramente un operatore di pace».
Sono le parole amare e addolorate di padre Claudio Marano, missionario da 12 anni nei quartieri nord di Bujumbura, la capitale del Paese africano, dove guida il più grande centro ricreativo e culturale per i giovani burundesi.
«Sì, lo conoscevo bene, il nunzio apostolico», aggiunge il padre saveriano. «Spesso veniva da noi, perché amava vedere la moltitudine di giovani del nostro centro giocare e imparare assieme, senza quelle divisioni etniche e politiche che hanno insanguinato il Paese».
Gli osservatori concordano sul movente dell’omicidio: monsignor Courtney, irlandese, nunzio in Burundi da tre anni, ha pagato il suo impegno per la pace. È stato assassinato in un agguato il 29 dicembre scorso, a una quarantina di chilometri dalla capitale, mentre rientrava dopo aver partecipato nella città di Bururi a una cerimonia in memoria di un sacerdote locale.
UN EPISODIO SENZA PRECEDENTI
La sua auto è stata crivellata dalle raffiche di diverse armi da fuoco. Delle tre persone che lo accompagnavano, una sola è rimasta ferita, mentre il nunzio è stato colpito da diversi proiettili, fra cui uno mortale al capo.
Un episodio senza precedenti, almeno in epoca moderna: non si ha ricordo dell’uccisione di un ambasciatore della Santa Sede. È un fatto che rischia di avere conseguenze sul processo di pace in Burundi, che sta vivendo una fase delicatissima. Solo un mese e mezzo fa si era giunti a un accordo, siglato a Dar el Salam (Tanzania), che iniziava in queste settimane a essere applicato.
Il Burundi vive da dieci anni una sanguinosa guerra civile, a sfondo etnico, che si stima abbia provocato non meno di 300.000 vittime. Il conflitto, scoppiato nell’autunno del 1993 con l’uccisione di Melchior Ndadaye, il primo presidente della Repubblica di etnia hutu, in tutti questi anni non si era mai sopito, alternando fasi di acuta violenza ad altre di relativa calma.
Un primo accordo, sottoscritto tre anni fa, aveva portato i belligeranti a varare un Governo di transizione, guidato, in alternanza, prima da Pierre Buyoya, un presidente tutsi (l’etnia minoritaria – il 14 per cento della popolazione –, ma che ha sempre detenuto il controllo dell’esecutivo e dell’esercito); poi, dal maggio scorso, da un hutu appartenente al partito moderato Frodebu, Domitien Ndayizeye, tuttora in carica.
GLI EX RIBELLI AL GOVERNO
Due delle fazioni ribelli, però, le Forze per la difesa della democrazia (Fdd) e il Fronte di liberazione nazionale (Fnl), non avevano accettato quell’accordo. E solo una lunga trattativa aveva portato all’ingresso nel Governo dell’Fdd, nel novembre scorso, con la nomina di quattro ministri e del vicecapo di Stato maggiore scelti tra i suoi principali esponenti. Dopo mille difficoltà, quindi, l’accordo cominciava a essere applicato. Ma l’altro gruppo, l’Fnl, non solo aveva rifiutato ogni intesa, ma aveva di recente intensificato la guerriglia, con ripetuti attacchi sia nei confronti dell’esercito burundese sia di appartenenti all’Fdd.
Una situazione assai delicata, che ha riportato il Paese nella paura: non passa giorno senza agguati, scontri, sparizioni od omicidi. La tensione è fortissima, non solo per le azioni di guerriglia dell’Fnl, ma anche per l’ostilità dell’ala dura dell’esercito contro la riforma contenuta nell’accordo di pace, che prevede l’ingresso tra i militari di una parte degli ex ribelli. Monsignor Courtney, in questa fase, si era prodigato per accelerare l’applicazione dell’accordo, ma anche per sollecitare i ribelli dell’Fnl ad accettare l’avvio di una nuova trattativa.
Le prime conseguenze del suo omicidio si fanno già sentire: l’Fnl ha intimato al presidente della Conferenza episcopale burundese, monsignor Simon Ntamwana, di lasciare il Paese entro 30 giorni. Monsignor Ntamwana è considerato "colpevole" di aver indicato nell’Fnl il più probabile responsabile dell’agguato al nunzio apostolico.
Sono le parole amare e addolorate di padre Claudio Marano, missionario da 12 anni nei quartieri nord di Bujumbura, la capitale del Paese africano, dove guida il più grande centro ricreativo e culturale per i giovani burundesi.
«Sì, lo conoscevo bene, il nunzio apostolico», aggiunge il padre saveriano. «Spesso veniva da noi, perché amava vedere la moltitudine di giovani del nostro centro giocare e imparare assieme, senza quelle divisioni etniche e politiche che hanno insanguinato il Paese».
Gli osservatori concordano sul movente dell’omicidio: monsignor Courtney, irlandese, nunzio in Burundi da tre anni, ha pagato il suo impegno per la pace. È stato assassinato in un agguato il 29 dicembre scorso, a una quarantina di chilometri dalla capitale, mentre rientrava dopo aver partecipato nella città di Bururi a una cerimonia in memoria di un sacerdote locale.
UN EPISODIO SENZA PRECEDENTI
La sua auto è stata crivellata dalle raffiche di diverse armi da fuoco. Delle tre persone che lo accompagnavano, una sola è rimasta ferita, mentre il nunzio è stato colpito da diversi proiettili, fra cui uno mortale al capo.
Un episodio senza precedenti, almeno in epoca moderna: non si ha ricordo dell’uccisione di un ambasciatore della Santa Sede. È un fatto che rischia di avere conseguenze sul processo di pace in Burundi, che sta vivendo una fase delicatissima. Solo un mese e mezzo fa si era giunti a un accordo, siglato a Dar el Salam (Tanzania), che iniziava in queste settimane a essere applicato.
Il Burundi vive da dieci anni una sanguinosa guerra civile, a sfondo etnico, che si stima abbia provocato non meno di 300.000 vittime. Il conflitto, scoppiato nell’autunno del 1993 con l’uccisione di Melchior Ndadaye, il primo presidente della Repubblica di etnia hutu, in tutti questi anni non si era mai sopito, alternando fasi di acuta violenza ad altre di relativa calma.
Un primo accordo, sottoscritto tre anni fa, aveva portato i belligeranti a varare un Governo di transizione, guidato, in alternanza, prima da Pierre Buyoya, un presidente tutsi (l’etnia minoritaria – il 14 per cento della popolazione –, ma che ha sempre detenuto il controllo dell’esecutivo e dell’esercito); poi, dal maggio scorso, da un hutu appartenente al partito moderato Frodebu, Domitien Ndayizeye, tuttora in carica.
GLI EX RIBELLI AL GOVERNO
Due delle fazioni ribelli, però, le Forze per la difesa della democrazia (Fdd) e il Fronte di liberazione nazionale (Fnl), non avevano accettato quell’accordo. E solo una lunga trattativa aveva portato all’ingresso nel Governo dell’Fdd, nel novembre scorso, con la nomina di quattro ministri e del vicecapo di Stato maggiore scelti tra i suoi principali esponenti. Dopo mille difficoltà, quindi, l’accordo cominciava a essere applicato. Ma l’altro gruppo, l’Fnl, non solo aveva rifiutato ogni intesa, ma aveva di recente intensificato la guerriglia, con ripetuti attacchi sia nei confronti dell’esercito burundese sia di appartenenti all’Fdd.
Una situazione assai delicata, che ha riportato il Paese nella paura: non passa giorno senza agguati, scontri, sparizioni od omicidi. La tensione è fortissima, non solo per le azioni di guerriglia dell’Fnl, ma anche per l’ostilità dell’ala dura dell’esercito contro la riforma contenuta nell’accordo di pace, che prevede l’ingresso tra i militari di una parte degli ex ribelli. Monsignor Courtney, in questa fase, si era prodigato per accelerare l’applicazione dell’accordo, ma anche per sollecitare i ribelli dell’Fnl ad accettare l’avvio di una nuova trattativa.
Le prime conseguenze del suo omicidio si fanno già sentire: l’Fnl ha intimato al presidente della Conferenza episcopale burundese, monsignor Simon Ntamwana, di lasciare il Paese entro 30 giorni. Monsignor Ntamwana è considerato "colpevole" di aver indicato nell’Fnl il più probabile responsabile dell’agguato al nunzio apostolico.
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