Da Il Manifesto del 27/01/2004

Politica o quasi

Velo e sunna, lezioni dal passato

di Ida Dominijanni

Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal tabloid francese Le Parisien, il 53% dei musulmani residenti in Francia contestano la legge sulla laicità recentemente proposta dal governo (quella che vieta l'ostentazione di simboli di appartenenza religiosa e politica, a partire dal velo), mentre il 42% l'approva. Fra i francesi l'indice di gradimento è più che rovesciato: il 69% è a favore, il 29% contro. E fin qui tutto torna, anche se la percentuale di musulmani favorevoli può sembrare sorprendentemente alta. Procedendo nella lettura dei dati, invece, le sorprese aumentano: quasi tutti i musulmani interpellati infatti (un campione di 402 persone), compresi quelli contari alla legge, giudicano «valori importanti» la repubblica, l'eguaglianza fra uomo e donna, la neutralità della cittadinanza rispetto alle credenze religiose, e quasi il 70% considera altresì importante il principio della separazione fra chiese e stato. E qui qualcosa non torna, perché evidentemente c'è una consistente quota di musulmani che non ritiene che quella legge c'entri qualcosa con questi importanti valori, gli stessi che invece Chirac e il governo adducono a suo sostegno. Anche fra i politici francesi, del resto, l'ombra del dubbio aleggia e cresce: equiparare la bandana al velo? considerare minacciosa ostensione anche quella della barba negli uomini o delle chiome lunghe a mo' di velo per le donne? stendere una dettagliata e complessa casistica per l'applicazione della legge? Ma se un principio universalistico - come quello della «neutralità» della cittadinanza invocato da Chirac - ha bisogno di dettagliate casistiche, che principio universalistico è? Vengo al punto. Ci sta cascando addosso, in Europa, tutta d'un botto quella crisi dell'universalismo altrove, in primo luogo negli Usa, già sperimentata negli ultimi decenni. Ci casca addosso, non a caso, per il tramite di casi, norme e pratiche che riguardano il controllo maschile del corpo e della sessualità femminile in culture diverse dalla nostra: vedi le questioni, sotto questo aspetto analoghe pur se diverse per altri aspetti, del velo in Francia e della cosiddetta «infibulazione dolce» qui in Italia. O per meglio dire, ci ri-casca addosso: dal momento che era già cascata addosso alle società europee per il tramite di casi, norme e pratiche riguardanti il controllo maschile della sessualità femminile nella nostra cultura: vedi le questioni, sotto questo aspetto analoghe pur se diverse per altri aspetti, dell'aborto, della violenza sessuale e della procreazione assistita. In tutti e tre questi casi, quello che il femminismo ha fatto non è stato di rifugiarsi sotto l'ombrello «neutrale» dei valori universalistici: al contrario, ne ha denunciato il marchio d'origine sessuato, maschile, e ne ha contestato l'inadeguatezza a comprendere (nel doppio senso di capire e di includere) le ragioni femminili. Non si è mai trattato di estendere diritti uguali, ma di decostruire poteri e desideri, e di costruire responsabilità e libertà, differenti, e spesso inedite.

Perché ricordo questi passaggi? Perché mi pare poco coerente rispolverare adesso quell'universalismo da noi e per noi europee contestato per aplicarlo come un toccasana alle situazioni di discriminazione, oppressione e illibertà di cui soffrono «le altre», ovvero le donne di cultura diversa dalla nostra. Eppure sembra questo il riflesso femminil-femminista maggioriatario sia nel caso del velo sia nel caso dell'infibulazione cosiddetta soft: come se la laicità nel primo caso, l'inviolabilità del corpo nel secondo - valori universali occidentali - fossero di per sé una barriera capace di far saltare i sistemi di dominio patriarcali di quelle culture, e applicati a quelle culture perdessero il marchio maschile che noi donne ne abbiamo smascherato nella nostra. Conosco l'obiezione: «stai scivolando nel relativismo etico». Non è vero, perché il relativismo etico implica una neutrale tolleranza per le culture altre e i loro codici di dominio, che non ho alcuna intenzione di avallare: non c'è proprio niente da tollerare né nell'imposizione del velo, né nelle pratiche, fossero pure le più dolci, di infibulazione, escissione, sunna e simili (e non mi convince in proposito l'argomento per cui la sunna eliminerebbe il danno fisico lasciando «solo» il rito simbolico: perché un marchio simbolico non è meno grave di un marchio fisico). Dico però che vanno cercate e costruite con le donne di culture diverse dalla nostra le pratiche e le mediazioni giuste per combattere questi e altri soprusi. E che non è detto affatto che queste pratiche e mediazioni consistano nell'estensione alle «altre» dei diritti universali che abbiamo contestato per «noi». Salvo voler rifare in Italia e in Europa la via crucis che è toccata al femminismo americano, dove le donne bianche e le pretese della grammatica bianca dei diritti sono oggetto da decenni di contestazioni asperrime da parte delle «altre». Il femminismo americano, che nei diritti ha sempre creduto molto, questa via crucis non poteva evitarla. Ma noi, possiamo, se solo manteniamo verso di essi la sorvegliata diffidenza che non ci manca.

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