Da Corriere della Sera del 02/02/2004

Noi e la Bbc

Giornalismo d’inchiesta Nuove sfide

di Dario Di Vico

Partito dall'Inghilterra, il virus ha già colpito il giornalismo italiano. Se la tv pubblica, la mitica Bbc, non è riuscita a incastrare Tony Blair e a dimostrare che aveva deliberatamente manipolato le informazioni sulle armi di Saddam, ciò vuol dire - sostengono i bollettini medici - che tutto il giornalismo d'inchiesta ormai sta tirando le cuoia. L'unico menu che i media potranno offrire ai lettori da oggi in poi sarà fatto di verità ufficiali e opinioni in libertà. Ma è davvero così? Dal caso di Andrew Gilligan, il reporter che ha forzato i suoi articoli per poter provare la responsabilità dell’inquilino di Downing Street, si può arrivare a conclusioni così pessimistiche sul futuro del giornalismo indipendente? L’impressione è che si stia esagerando, che nel pur appassionato dibattito che si è aperto sui principali quotidiani italiani ad avere la meglio fino ad ora sia stata l’iperbole e tutte le traduzioni italiane del caso inglese appaiono affrettate.

A partire da un improponibile paragone tra i due sistemi mediatici. La Bbc è un potere largamente bilanciato dall’influenza che esercitano sui lettori inglesi sia la grande stampa indipendente sia i tabloid. Insomma se c’è un posto dove non si può parlare di strapotere della tv è proprio il Paese d’Albione.

L’opinione pubblica inglese è composta da persone che in una proporzione di tre su quattro leggono i giornali. La Bbc ha un suo statuto di autonomia che le permette di non essere in balia delle maggioranze politiche che governano la nazione. Ergo, la sconfitta di Gilligan non equivale comunque a una totale resa dei media al potere. E’ un episodio di cui sarebbe ridicolo sminuire l’importanza ma che rientra a pieno titolo nella dialettica delle parti. Se quell’inchiesta non è risultata inappuntabile nessuno impedirà ai reporter inglesi di confezionarne sin da domani delle altre. Magari più fortunate.

E in Italia? La tradizione del giornalismo d’inchiesta è sufficientemente radicata anche da noi. Negli anni ’60 Giorgio Bocca dalle pagine del «Giorno» raccontò un Paese che cambiava pelle in fretta, una modernizzazione che allora aveva del miracoloso.

Più tardi Giuliano Zincone sul «Corriere della Sera» indagò la faccia nascosta di quello sviluppo a tappe forzate, raccontò le storie degli infortuni sul lavoro che si ripetevano con inesorabile frequenza.

Entrambi fecero vedere alla società se stessa, diedero trasparenza alla vicenda economica e sociale in una fase di profonda trasformazione. Venne poi il giornalismo che amiamo definire, con termine mutuato dal lessico poliziesco, «investigativo». Nella stagione delle cento trame e delle troppe verità nascoste, valorosi colleghi aiutarono con il loro infaticabile lavoro la giovane democrazia italiana a credere in se stessa.

Come è normale che accada ci sono stati anche fenomeni che il giornalismo ha faticato a registrare o addirittura non ha capito.

Prendiamone uno: il terrorismo rosso. In questi giorni si ricorda il sacrificio di Guido Rossa e varrà la pena anche rammentare come fino ad allora non ci fossero stati solo ritardi della sinistra e del sindacato nel capire cosa era avvenuto, le stesse lacune le mostrarono i giornali. Per venire ai giorni nostri è sin troppo facile sottolineare come la stampa abbia stentato a fotografare il fenomeno leghista, a interpretarne per tempo gli umori. Rimase spiazzata. E anche in occasione del cambio lira-euro è accaduto qualcosa del genere, l’informazione ha perso capacità d’ascolto e ha lasciato gli italiani, dapprima, soli con il loro convertitore e, poi, ammutoliti davanti alla spirale dei prezzi. Un errore che si sarebbe ripetuto non raccontando per tempo come e quanto si sia ampliata l’area delle nuove povertà.

In definitiva nella storia del giornalismo vittorie e sconfitte sono destinate ad alternarsi. E’ riduttivo pensare al futuro della stampa indipendente solo in chiave di una perenne lotta tra guardie e ladri, investigatori coraggiosi e politici felloni. Specie in Italia dove la carta stampata rischia di essere sopraffatta dai mezzi a disposizione della televisione, i giornali si trovano davanti a una doppia sfida, devono continuare a controllare il potere ma devono nel frattempo «recuperare» il rapporto con la società civile.

Ci dicono i classici della democrazia che il pluralismo per fiorire ha bisogno che le élites - di cui i giornali sono parte - siano divise tra loro, che si «combattano» lealmente. Ma attenzione a costruire un «pluralismo per pochi», già oggi da noi aumentano le testate, accanto ai grandi giornali sorgono nuovi fogli d’opinione, ma nel contempo diminuiscono i lettori. Dare visibilità ai problemi sociali, raccontare i conflitti verticali - come quello che in questi giorni oppone il sistema finanziario ai risparmiatori - diventa la conditio sine qua non per avere giornali indipendenti. Più lettori, più autonomia. Più il giornalismo saprà raccontare le vicende del Paese anche alle massaie, più smentirà chi sostiene apertamente che solo la televisione goda da noi di una legittimazione popolare.

Fare del buon giornalismo d’inchiesta oggi forse è meno facile di ieri. I media, spesso in sterile competizione tra loro, producono a volte un insopportabile rumore di fondo che finisce per sovrastare ogni altra voce. Una volta era relativamente semplice raccontare agli italiani ciò che loro non potevano fisicamente andare a vedere, oggi il territorio è illuminato mille volte più che negli anni Sessanta. Le difficoltà ci sono, ma bisogna continuare a provarci perché le nostre società cambiano con una velocità senza precedenti. Gli avversari, dunque, sono tanti, non solo la pattuglia di spin doctor di cui continueranno a circondarsi tutti i Blair del mondo per sedurre l’opinione pubblica.

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