Da Il Messaggero del 14/02/2004

L’intervista/ Il politologo americano che fu consigliere di Clinton parla dell’America, di Bush, dell’Islam

Democrazia va detto al plurale

Barber: «Ogni Paese deve avere la sua, non è da esportazione»

di Roberto Bertinetti

E’ L’ANALISI dei costi e dei benefici dell'intervento militare americano in Iraq a guidare il ragionamento di Benjamin Barber. «Penso che la domanda alla quale dobbiamo dare una risposta sia: ma davvero il mondo è più sicuro dopo la seconda guerra del Golfo? Credo proprio di no. Gli attentati contro gli occidentali non sono affatto diminuiti e la caduta di Saddam non ha certo portato la democrazia a Bagdad. Dove, al contrario, è sempre più concreto il rischio che una guerra civile impedisca il dialogo tra sciiti, sunniti e curdi». A Roma mentre l'Einaudi propone in Italia il suo ultimo saggio ( L'impero della paura , 209 pagine, 14 euro), il politologo statunitense che ha lavorato a lungo a fianco di Clinton condanna senza appello le scelte di George Bush. «L'unilateralismo è un grave errore e i conflitti scatenati dall'amministrazione repubblicana per combattere il terrorismo hanno fatto aumentare i rischi sia per gli Usa che per l'intero Occidente», spiega. Molto più utili, aggiunge, sarebbero state operazioni mirate contro i gruppi fondamentalisti che operano in Asia, nel Medio Oriente e in Africa. «I talebani sono spariti, eppure Al Qaeda vive ancora. L'era di Saddam è finita, quella della jihad contro l'America è forse appena iniziata. Perché se è vero che ci sono Stati che ospitano e finanziano i terroristi, abbattere i dittatori che li guidano non elimina i terroristi. Essi, infatti, ricevono sostegno economico o logistico ma non dipendono certo da quanti glielo forniscono. In questo sono simili ai parassiti: vivono in corpi ospiti, ma possono passare da un corpo ad un altro senza indebolirsi», aggiunge Barber.

Sviluppando il punto di vista già espresso nel 1995 nel suo best seller Jihad vs McWorld , lo studioso ritiene che sia in atto una battaglia tra due pericolose forme di totalitarismo: il tribalismo reazionario di matrice religiosa, che fa proseliti innalzando tra i fedeli all'Islam la bandiera della guerra santa contro gli occidentali, e le forze di una globalizzazione assai aggressiva, decisa a far trionfare ovunque un capitalismo senza regole. «Si tratta di idee solo all'apparenza inconciliabili», precisa, «mentre in realtà sono simili tra loro e una non riuscirebbe a vivere senza l'altra. Il nemico di entrambe è la democrazia. Per batterle occorre invece rafforzare la democrazia dove già esiste e offrirle l'opportunità di crescere dove è sconosciuta. Senza, tuttavia, ricorrere alla guerra preventiva come pensano Bush e i falchi repubblicani di Washington. Far radicare la democrazia richiede tempo: seminare su un terreno arido e sterile garantisce un risultato negativo. Perché alla prima tempesta politica quei semi verranno spazzati via».

La difesa dell'America e dell'Occidente è un obiettivo da perseguire utilizzando, dice Barber, strategie più efficaci di quella scelta da George Bush. «Il terrorismo è un cancro che va ad ogni costo estirpato, ma si tratta di una complessa operazione chirurgica da affidare ai professionisti dell'intelligence e a unità scelte dell'esercito, senza violare le regole del diritto internazionale. In altre parole, la caccia ai capi di Al Qaeda resta senza dubbio prioritaria, ma scatenare guerre preventive non ha purtroppo favorito la cattura di Bin Laden», osserva lo studioso. Che nel suo libro sottolinea l'importanza della dottrina della democrazia preventiva. «Io parto dal presupposto che la sicurezza in un mondo sempre più interdipendente può essere garantita solo favorendo il progressivo rafforzamento delle istituzioni democratiche», sostiene. E quindi precisa che è inutile provare a imporre la democrazia «puntando il fucile alla tempia di interi popoli». Risultati migliori, aggiunge, si ottengono cercando di ridurre la distanza tra il nord e il sud del mondo, investendo sull'istruzione, avviando interventi coordinati su scala planetaria per sviluppare le virtù civili e la cultura dei diritti individuali in continenti dove questi concetti sono ancora sconosciuti.

Barber è comunque convinto che esportare un'idea occidentale di democrazia in Medio Oriente, in Asia o in Africa costituisca una pericolosa forma di neocolonialismo politico. «Spedire per fax una copia del Bill of Rights a Kabul o inviare per posta elettronica un progetto di assemblea legislativa a Bagdad non rappresenta certo una soluzione - precisa -. Ogni paese deve trovare il suo percorso autonomo verso la democrazia. In Afghanistan, ad esempio, si stanno ottenendo buoni risultati con la Loya Jirga, un'istituzione assai antica che raggruppa i capi delle tribù. E' un caso interessante, perché dimostra che non esiste un'unica forma di democrazia. Penso sia invece più utile parlare di democrazie al plurale. Ciascuna legata alla storia di un popolo». A giudizio dello studioso, si tratta di un processo destinato a radicarsi in fretta anche nei paesi a maggioranza religiosa musulmana. «Molte società islamiche», spiega, «vengono frenate nel cammino verso la democrazia da un'élite totalitaria, che utilizza le risorse statali per rafforzare il proprio potere e non per garantire e promuovere lo sviluppo. Ma le dittature non dureranno per sempre, perché in un mondo interdipendente il desiderio di libertà dei cittadini è destinato a prevalere. A patto che l'America e i suoi alleati non favoriscano i fondamentalisti scatenando inutili guerre preventive», osserva Barber. Quanto tempo servirà per far scoprire all'intero Islam le benefiche virtù della democrazia? «Una o due generazioni», replica Barber. E quindi conclude facendo osservare «che si tratta di un tempo decisamente più breve di quello che fu necessario all'Inghilterra, alla Francia e all'America per democratizzare le proprie fanatiche culture cristiane».

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