Da La Repubblica del 04/03/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/politica/rifogiu/stretta/stret...

Commento

La strada resta stretta

di Giuseppe D'Avanzo

UNA buona notizia. Hanno ragione il capo dello Stato e il presidente della Camera. È una buona notizia che lo sciopero dei magistrati, annunciato per l'11 e il 12 marzo, sia stato sospeso. Con i tempi elettorali e maligni che corrono, va salutato con soddisfazione e qualche oncia di ottimismo che il conflitto istituzionale tra potere legislativo e potere giudiziario incontri finalmente una pausa. Quando nel cozzo sono coinvolte le istituzioni, non c'è chi vince e chi perde: ognuna delle istituzioni in conflitto perde in credibilità, affidabilità, autorevolezza agli occhi dell'opinione pubblica.

Una buona notizia, dunque. Che tuttavia val la pena di sondare. Qual è la buona notizia? Che non ci sarà l'astensione dei magistrati? O che il Parlamento non si opporrà pregiudizialmente alle proposte e alle riflessioni dei magistrati?

Per rintracciare una risposta, si deve ritornare alle ragioni che quello sciopero hanno sollecitato. Sarebbe un errore restringere quelle ragioni alle scelte riformatrici dell'ordinamento giudiziario approvate dalla Casa delle Libertà in Senato.

Figlia di una cultura giacobina che, come nel 1790, vieta ai giudici l'interpretazione della legge, soffocata nei confini dell'Ordinamento Grandi del 1942, la riforma definita "epocale" dal Guardasigilli riporta indietro l'orologio della storia. Lo riconduce a quando la magistratura era una struttura gerarchica e burocratizzata, fortemente controllata dal potere politico dove le "teste storte" erano tenute ai margini grazie a concorsi che segnavano gli avanzamenti in carriera e valutavano l'omogeneità del magistrato all'opinione comune e alla dottrina maggioritaria. Una riforma preoccupata di riformare i giudici e non la giustizia. Quindi, incapace di restituire al "sistema" l'efficienza, l'equità, la modernità di cui è deficitario. Conviene ripeterlo. Il merito della riforma è soltanto un aspetto della questione che ha diviso magistratura, governo e Parlamento.

C'è un'altra ragione che, come la prima, forse più della prima, è apparsa decisiva alla magistratura per annunciare il terzo sciopero nella vita dell'Italia repubblicana. Questa ragione bisogna afferrarla nell'idea di fondo che ha sostenuto il metodo che governo e maggioranza parlamentare si sono dati per dar vita a una riforma non discussa e non condivisa e tuttavia imposta al di là di ogni saggezza istituzionale. L'ordinamento giudiziario non è una legge qualunque, va ripetuto. Non disciplina il lavoro di una burocrazia, ma disegna uno dei poteri chiamato a tutelare i diritti del cittadino. Ne delimita gli ambiti, la forza e i limiti. Ne codifica la relazione con gli altri poteri proteggendone o limitandone l'autonomia. Riscrivere le regole di quel potere ha un valore politico e non un banale segno "amministrativo". Non può essere, allora, una riforma ideata da qualche "saggio" scelto dal capo del governo e decisa in riunioni ristrette a Palazzo Chigi con gli avvocati del presidente del Consiglio. Non può essere un progetto proposto a scatola chiusa in Parlamento anche a settori della stessa maggioranza. Anche perché quella riforma rivela in modo esplicito lo spirito di vendetta contro la magistratura, la volontà di immunizzare la "politica" da qualsiasi controllo.

In questa filosofia del potere che in trasparenza aveva l'obiettivo di rifondare il primato della politica, dopo gli anni difficili di Tangentopoli, si rintraccia la più autentica ragione dell'ostilità della magistratura. La riforma dell'ordinamento giudiziario è apparsa (non solo alla magistratura) la strada stretta e impropria scelta dall'esecutivo per attribuire alla sovranità popolare quel potere primigenio che "dieci anni di veleni e di interdizioni" gli avevano sottratto. Un potere al cui cospetto ogni altro potere deve cedere. Un potere che non tollera né il limite della legge interpretata dai giudici né istanze superiori come la Costituzione.

Ai magistrati è parso doveroso denunciare la "deriva populistica di quella concezione" e ricordare alle forze politiche, alle istituzioni, all'opinione pubblica che la nostra Carta è fondata sul primato dei diritti e sulla separazione dei poteri. Non c'è gerarchia né primazia tra i poteri, ma equilibrio e controllo reciproco. La concezione che il governo voleva imporre, al contrario, credeva soltanto nella legittimazione elettorale e nel primato della politica di maggioranza anche sulle istituzioni di garanzia.

Mentre il dibattito si accendeva sulla legittimità o illegittimità di quello sciopero, si è dimenticato in queste settimane che la discussione era mutata di segno. Non riguardava più il merito della riforma, ma il metodo che il governo aveva dato alla riforma, tutto centrato sul potere della maggioranza. Questo metodo autoritario, plebiscitario, populista è stato accantonato. È questa la buona notizia. Se poi anche il merito della riforma diventerà una buona notizia, è presto per dirlo. In tema di giustizia, la sapienza legislativa della maggioranza consiglia prudenza. Anche se Francesco Rutelli sembra averlo dimenticato.

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