Da La Stampa del 09/03/2004

Non lui, ma altre sono le vittime degli anni di piombo

La scelta dell'Imam

di Igor Man

Alla Casa Bianca s’è brindato con spumeggianti analcolici, a Baghdad con qualcosa di più robusto. Il Grande Ayatollah Ali al-Sistani, il leader spirituale degli sciiti iracheni - il 60 per cento della popolazione dell’Iraq - dopo il «no» del trascorso venerdì, motivato con una fatwa di impronta khomeinista, ha infine firmato la bozza della Costituzione provvisoria irachena. Lo ha fatto «per amor di patria», come ha voluto chiarire suo figlio, Mohammed Rida Sistani, che gli fa da portavoce e assistente. Il Grande Ayatollah in fatto vive recluso oramai da anni nella sua modesta residenza.

Grazie a Internet è aggiornatissimo. La sua volontaria reclusione, il negarsi alla visibilità non è una stravaganza. E’ un modo, tipicamente sciita, di autosacralizzarsi facendo riferimento all’imam nascosto (il Madhi che, giusta la tradizione, rivelerà sé stesso nel giorno del giudizio). E funziona se è vero che, come fonti di solito bene informate vorrebbero, a premere sul Grande Ayatollah non visibile, affinché firmasse, ancorché «con riserva», sia stato il vertice di Teheran. Non è un mistero che gli Stati Uniti guardino con preoccupata irritazione alla politica neo-khomeinista dell’Iran dove il recente disastro elettorale di Khatami ha sparigliato le carte. L’irritazione americana viene giudicata «pericolosa» dalla teocrazia iraniana. Da qui l’azione persuasiva di Khamenei sul leader sciita iracheno. Nessuno lo ammetterà in pubblico, ma a Teheran il timore di una zampata del colosso yankee è fortissimo.

Se il contenzioso che ha esasperato l’intrepido Bremer, fosse soltanto politico, non ci sarebbe da preoccuparsi troppo. La politica è il forcipe dell’impossibile.

Il guaio è che in Iraq parallelamente al problema politico, troviamo una terribile spada di Damocle: la piccola guerriglia che svena i G.I. sembra avviarsi, giorno dopo giorno, a una più vasta guerra popolare. La cattura di Saddam ha rivelato come non siano i baathisti, i suoi presunti «ultimi fedeli» a insidiare l’armata americana e quegli iracheni che (per bisogno o per convinzione) si sono arruolati nella polizia o nei radi ranghi d’un ipotizzato nuovo esercito - no: a fabbricare attentati spaventosi come l’ultimo di Karbala (un eccidio), è una sorta di legione straniera chiamata dal dittatore deposto. Che è sì l’uomo dal rischio mal calcolato ma non certo uno stregone in doppiopetto e stivaletti made in Italy. «Forse riusciranno ad abbattermi, questa volta, ma non avranno pace per il resto della loro vita»: così, secondo la vulgata, avrebbe detto Saddam ai suoi sciagurati figliuoli prima di separarsi. Per «non dar pace» al nemico, per ridurlo alla stregua d’un toro dissanguato da implacabili banderillas, Saddam, alla vigilia della guerra chiama a raccolta «gli ultimi mohicani»: giovanissimi somali, afghani, algerini, sauditi, palestinesi, gente allevata a pane e sangue, fanatici esperti d’esplosivo, tiratori scelti. Assassini sospinti da un propellente spaventoso: l’odio. Verso il «grande Satana» e i suoi «lacché». Di più: solo quattro intellettuali, in Iraq, sanno cos’è la democrazia e la sognano; la stragrande maggioranza degli iracheni associa la democrazia al postcolonialismo, al mondo degli infedeli predatori della manna di Allah: il petrolio.

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