Da Il Mattino del 23/03/2004
Il personaggio
Quell’icona di fede e paura
di Vittorio Dell'Uva
La sua voce restava flebile anche quando malediceva i «sionisti». Gli occhi spenti dal glaucoma sembravano persino illuminarsi ad ogni riferimento alla «guerra santa». Non pochi kamikaze hanno ricevuto la sua benedizione prima di andare a morire e ad uccidere in Israele. Ahmed Yassin era diventato insieme una icona del terrore e della fede. Ma anche della sofferenza e della rabbiosa capacità di resistenza di un popolo alla ricerca di simboli e di bandiere dopo averne perduti non pochi per strada. Il caso aveva voluto che crescesse in un campo profughi di Gaza dove i bambini, sessant’anni più tardi ancora giocano rincorrendosi tra le fogne a cielo aperto, sapendo di non avere un futuro. Un incidente ne aveva fatto un tetraplegico inchiodato dall’età di 12 anni su una sedia a rotelle.
Chiunque, nei giorni in cui la Palestina cominciava ad essere ridisegnata dai sensi di colpa occidentali nei confronti degli ebrei e dalle guerre, avrebbe pronosticato per lui un destino da sconfitto.
Ieri, esultando per la sua morte che aveva appena decretato con una esecuzione mirata, Ariel Sharon lo ha descritto come «il primo degli assassini e dei terroristi palestinesi».
Di tappe, sulla via dell’estremismo ideologico e religioso, lo sceicco Yassin ne aveva oggettivamente percorse parecchie, per almeno un paio di decenni, anche sotto gli occhi interessati di Israele. Si era formato alla università islamica di Al Azhar al Cairo, palestra dell’indrottinamento degli irriducibili della Fratellanza islamica. Le sue preghiere del venerdì dal «pulpito» del centro islamico di Gaza, che al rientro dall’Egitto aveva fondato, erano state ispirate ad una costante intransigenza nei confronti dello Stato ebraico. Ma soprattutto si era tenuto lontano, non condividendola, dalla linea «contemplativa» di sciecchi di periferia rifugiatisi nella declamazione dei versetti del Corano. Ai richiami esercitati in nome della fede aveva voluto affiancare l’azione politica ed un proselitismo sul terreno contraddistinto da iniziative concrete. Le istituzioni religiose che sempre di più a lui facevano capo dovevano soprattutto occuparsi di problemi sociali per trasformarsi in un punto di riferimento tra le pieghe di una società povera e depressa alla quale la leadership palestinese, non esente dal virus nascente della corruzione, non prestava il giusto livello di attenzione. Ad incrementare il suo carisma non poco contribuiva l’accentuato distacco dai beni materiali. Nella Gaza che cominciava a subire l’impatto di uno sviluppo edilizio non privo di una certa superbia architettonica, la casa di Yassin continuava ad affacciarsi su una delle tante stradine in terra battuta della immutabile periferia. Ai suoi undici figli non veniva indicata che la via del sacrificio e della religione.
Alla nascita di Hamas, la sua organizzazione, fondata negli anni della prima intifada, Israele non mancò di guardare con qualche apprensione. Ma anche con un certo interesse. Le spinte dell’islamismo in una società sostanzialmente laica andavano certamente controllate mentre si sviluppava la «rivolta delle pietre», ma contemporaneamente l’èsprit rivoluzionario che lo sciecco Yassin interpretava poteva conteneva forti elementi di contestazione nei confronti della classe dirigente che dipendeva totalmente da Yasser Arafat. Da una frattura nella società palestinese, Israele avrebbe certamente tratto vantaggio. Hamas poteva persino essere aiutata. La radicalizzazione della lotta avrebbe reso, nel tempo, fallimentare il progetto anche dopo un parziale «ravvedimento».
Yassin diventa ufficialmente un nemico nel 1991 e condannato all’ergastolo per avere ordinato l’uccisione di soldati israeliani e di collaborazionisti palestinesi. Ma sei anni più tardi può tornare a Gaza nel quadro di uno scambio di prigionieri. E da eroe che ormai invoca il martirio può dedicarsi con maggiore determinazione alla causa. All’alba della seconda intifada Hamas dispone ormai un braccio armato, la brigata Ezzedin Al Qassam, ma sopratutto, saldandosi con altre componenti dell’estremismo islamico, trova che sia venuto il momento di privilegiare la lotta armata in ogni forma possibile. La casa di Yassin diventa più che mai laboratorio dell’etremismo, lontana da tutti i tavoli del negoziato che si prova ad aprire. «La guerra contro i crociati durò quaranta anni, a noi ne basteranno 25» dirà nel settembre del 2000 in una intervista a Il Mattino anticipando che «deve succedere di tutto e che Israele deve essere colpita al suo cuore, perchè nostre sono Gerusalemme e la terre che ci sono state tolte». Il terrorismo dei kamikaze diventa più che mai per lo sceicco cieco, un’arma legittima da mettere in campo nel nome di Allah. E poco conta se la vendetta di Israele attraverso l’esecuzione mirata, risulterà insieme attesa e inevitabile.
Chiunque, nei giorni in cui la Palestina cominciava ad essere ridisegnata dai sensi di colpa occidentali nei confronti degli ebrei e dalle guerre, avrebbe pronosticato per lui un destino da sconfitto.
Ieri, esultando per la sua morte che aveva appena decretato con una esecuzione mirata, Ariel Sharon lo ha descritto come «il primo degli assassini e dei terroristi palestinesi».
Di tappe, sulla via dell’estremismo ideologico e religioso, lo sceicco Yassin ne aveva oggettivamente percorse parecchie, per almeno un paio di decenni, anche sotto gli occhi interessati di Israele. Si era formato alla università islamica di Al Azhar al Cairo, palestra dell’indrottinamento degli irriducibili della Fratellanza islamica. Le sue preghiere del venerdì dal «pulpito» del centro islamico di Gaza, che al rientro dall’Egitto aveva fondato, erano state ispirate ad una costante intransigenza nei confronti dello Stato ebraico. Ma soprattutto si era tenuto lontano, non condividendola, dalla linea «contemplativa» di sciecchi di periferia rifugiatisi nella declamazione dei versetti del Corano. Ai richiami esercitati in nome della fede aveva voluto affiancare l’azione politica ed un proselitismo sul terreno contraddistinto da iniziative concrete. Le istituzioni religiose che sempre di più a lui facevano capo dovevano soprattutto occuparsi di problemi sociali per trasformarsi in un punto di riferimento tra le pieghe di una società povera e depressa alla quale la leadership palestinese, non esente dal virus nascente della corruzione, non prestava il giusto livello di attenzione. Ad incrementare il suo carisma non poco contribuiva l’accentuato distacco dai beni materiali. Nella Gaza che cominciava a subire l’impatto di uno sviluppo edilizio non privo di una certa superbia architettonica, la casa di Yassin continuava ad affacciarsi su una delle tante stradine in terra battuta della immutabile periferia. Ai suoi undici figli non veniva indicata che la via del sacrificio e della religione.
Alla nascita di Hamas, la sua organizzazione, fondata negli anni della prima intifada, Israele non mancò di guardare con qualche apprensione. Ma anche con un certo interesse. Le spinte dell’islamismo in una società sostanzialmente laica andavano certamente controllate mentre si sviluppava la «rivolta delle pietre», ma contemporaneamente l’èsprit rivoluzionario che lo sciecco Yassin interpretava poteva conteneva forti elementi di contestazione nei confronti della classe dirigente che dipendeva totalmente da Yasser Arafat. Da una frattura nella società palestinese, Israele avrebbe certamente tratto vantaggio. Hamas poteva persino essere aiutata. La radicalizzazione della lotta avrebbe reso, nel tempo, fallimentare il progetto anche dopo un parziale «ravvedimento».
Yassin diventa ufficialmente un nemico nel 1991 e condannato all’ergastolo per avere ordinato l’uccisione di soldati israeliani e di collaborazionisti palestinesi. Ma sei anni più tardi può tornare a Gaza nel quadro di uno scambio di prigionieri. E da eroe che ormai invoca il martirio può dedicarsi con maggiore determinazione alla causa. All’alba della seconda intifada Hamas dispone ormai un braccio armato, la brigata Ezzedin Al Qassam, ma sopratutto, saldandosi con altre componenti dell’estremismo islamico, trova che sia venuto il momento di privilegiare la lotta armata in ogni forma possibile. La casa di Yassin diventa più che mai laboratorio dell’etremismo, lontana da tutti i tavoli del negoziato che si prova ad aprire. «La guerra contro i crociati durò quaranta anni, a noi ne basteranno 25» dirà nel settembre del 2000 in una intervista a Il Mattino anticipando che «deve succedere di tutto e che Israele deve essere colpita al suo cuore, perchè nostre sono Gerusalemme e la terre che ci sono state tolte». Il terrorismo dei kamikaze diventa più che mai per lo sceicco cieco, un’arma legittima da mettere in campo nel nome di Allah. E poco conta se la vendetta di Israele attraverso l’esecuzione mirata, risulterà insieme attesa e inevitabile.
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