Da La Stampa del 02/04/2004

La globalizzazione vista dal sud del pianeta. Tesi a confronto in due libri

Mettere il mondo sottosopra, per capirlo

di Mario Deaglio

Prendete una carta geografica del mondo e provate a capovolgerla, o, se preferite, mettetevi voi stessi a testa in giù: i continenti assumeranno forme strane, le punte di Africa e America Meridionale risulteranno rivolte verso l'alto, il Mediterraneo vi sembrerà come schiacciato dalla gran massa africana. Non più collocata in alto a sinistra, l'Europa apparirà come una curiosa, quasi irrilevante, appendice dell'Asia. Mettersi, almeno metaforicamente, a testa in giù, cambiare il modo in cui si guarda alla carta geografica è un esercizio utilissimo per chiunque voglia affrontare seriamente il problema del dialogo tra diverse culture, della comprensione dell'altro, della soluzione pacifica ai problemi del pianeta.

Ancora più utile risulta rendersi conto che, così come nessuna cultura dovrebbe pretendere a priori di costituire il vero e il giusto, nessuna carta geografica può rappresentare perfettamente la realtà. Tutte le carte geografiche sono caratterizzate da deformazioni, derivanti dall'impossibilità di rappresentare perfettamente una superficie curva su un piano, ma dietro alle distorsioni della geometria si celano quelle derivanti dalla cultura e dalla politica..

La società che espresse la Tabula Peutingeriana, l'unica carta geografica dell'antichità che sia giunta a noi, sia pure attraverso una copia (riprodotta di recente, in una splendida edizione a cura di Francesco Prontera, dalle edizioni Leo S. Olschki), era interessata soprattutto a una descrizione accurata delle distanze tra le stazioni di posta dell'Impero Romano e così il Mediterraneo vi appare lungo e strettissimo. La carta del mondo che siamo abituati a considerare tradizionale, derivata dalla proiezione di Gherardo Mercatore, un geografo fiammingo del Cinquecento, distorce le proporzioni reali a favore dell'emisfero Nord per cui l'America Meridionale appare più piccola dell'Europa, mentre ha una superficie doppia.

Collocare sulla carta i paesi che contano in alto a sinistra - così come, nelle nostre lingue, in alto a sinistra si incomincia a scrivere su un foglio, a differenza di quanto fanno, nel mondo, un paio di miliardi di persone - è uno dei tratti culturali più radicati, spontanei, quasi naturali nel nostro modo di essere europei e occidentali. Ci siamo così costruiti un immaginario Nord (meglio ancora se nord-ovest), ad un tempo geografico e culturale che identifichiamo con il progresso e la ricchezza, in contrapposizione dialettica con un immaginario Sud, sempre arretrato e inquietante; per questo troviamo difficile credere che la distanza di Los Angeles dall'equatore sia all'incirca pari a quella di Bagdad e che, in termini geografici, Washington sia più meridionale di Napoli, Vienna più orientale di Praga.

Rivoltare quest'universo, a un tempo geografico e culturale, guardare, anche materialmente, al mondo dal punto di vista degli altri può essere un ottimo punto di partenza per comprendere le ragioni di questi altri. A percorrere quest'itinerario faticoso ma forse indispensabile per cercare qualche soluzione ai problemi del pianeta ha provato uno studioso italiano, Marco Zupi, vicedirettore del Centro Studi di Politica Internazionale, che ha raccolto una dozzina di saggi, compresa la sua stimolante introduzione, in un volume che, più che un'antologia, è una proposta di percorso, comparso per i tipi di Laterza con il titolo Sottosopra. La globalizzazione vista dal Sud del mondo.

Nelle pagine di questo libro, intellettuali di ogni tipo e di ogni continente si susseguono nell'illustrare il proprio punto di vista. Per citare solo alcuni interventi, il nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, guarda «di traverso» alla globalizzazione e separa nettamente le spinte a una globalizzazione carica di uniformità dal dialogo tra le culture che è un confronto di diversità; il politologo e antropologo indiano Partha Chatterjee individua nel nazionalismo dei paesi extraeuropei molti aspetti di matrice coloniale e prevede la caduta dell'impero americano per deficit di democrazia; in un saggio da raccomandare caldamente a quegli italiani che, con interesse e timore, si avvicinano alla realtà della Cina, il sociologo Alvin Y. So, professore all'università di Hong Kong, getta una luce inedita sui meccanismi del miracolo cinese che fa di Pechino il potenziale antagonista di Washington. E un altro premio Nobel, l'economista indiano Amartya Sen, esempio inconsueto di formazione culturale composita, tra India, Inghilterra e Stati Uniti, si interroga sui rapporti tra cultura e sviluppo.

E' proprio lo stesso Sen a portare un attacco frontale alla miope autoreferenzialità degli occidentali con un libretto, edito da Mondadori, dal significativo titolo La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente. Ribaltando la tipica visione occidentale della storia, l'autore contesta che l'esperienza di governo democratico dell'antica Grecia abbia avuto effetti immediati in paesi come Francia o Inghilterra, mentre alcune tra le maggiori città dell'Iran e dell'India incorporarono elementi democratici nel loro tipo di governo, grazie all'influenza greca ai tempi di Alessandro Magno. Del resto, argomenta Sen, la costituzione del 1947 che ha fatto dell'India la maggiore democrazia del mondo, deve molto, accanto all'influenza occidentale, alle antiche tradizioni indiane.

Sono poi numerosi gli esempi di tolleranza orientale e di intolleranza occidentale elencati da Sen, da quello di Maimonide, filosofo ebreo del XII secolo, il quale, costretto a fuggire da un'intollerante Europa, trovò un posto d'onore e di influenza alla corte del Saladino; del resto, quando nella piazza romana di Campo dei Fiori veniva bruciato Giordano Bruno, l'imperatore mogul Akbar proclamava in India la necessità della tolleranza e favoriva il dialogo tra le religioni, quella cristiana compresa; per non parlare della «Costituzione dei diciassette articoli», introdotta nel 604 in Giappone, che contiene principi abbastanza simili a quelli della Magna Charta, emanata in Inghilterra sei secoli più tardi.

Ce n'è abbastanza per meditare sul possibile provincialismo di un Occidente che 170 anni fa, con la Guerra dell'Oppio, forte della propria superiorità militare e convinto della propria superiorità morale e intellettuale, esportava il Vangelo e il libero mercato sulla punta delle baionette. Oggi una parte della cultura occidentale è ugualmente convinta di possedere le uniche ricette funzionanti della libertà e della democrazia e di poterle tranquillamente esportare nel resto del mondo - in Iraq e in Afganistan, a esempio - così come si esporta un farmaco o un altro bene di consumo.

Queste convinzioni poggiano, d'altra parte, su precedenti illustri. Nel 1835, Thomas Babington Macaulay, un grande storico inglese di tradizione liberale, sostenne in un celebre scritto, indirizzato al governo coloniale indiano (noto precisamente l'appunto Macaulay) che «un solo scaffale di una buona biblioteca europea vale quanto l'intera letteratura indigena dell'India e dell'Arabia». Su questa base, venne deciso che l'istruzione superiore dell'India britannica si sarebbe svolta in inglese e non in sanscrito e in arabo. Il che ha certamente contribuito alla costruzione dell'India moderna e costituisce un vantaggio per i giovani laureati indiani i quali, grazie a Internet e a basse pretese salariali, strappano posti di lavoro ai loro colleghi americani; ma ha anche contribuito a un sottile, ma viscerale, distacco dell'India dalla Gran Bretagna, all'esplodere di un nazionalismo moderato ma profondo, basato sulla religione indù.

In definitiva, per dirla con Voltaire, è ben difficile, in geografia come in morale, conoscere il mondo senza uscire di casa propria. E l'uscita da casa propria può ben cominciare dalla presa d'atto che può esistere anche un imperialismo delle carte geografiche; e che non si tratta neppure del più innocuo.

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