Da Corriere della Sera del 09/04/2004
IL RUOLO EUROPEO / L’asse con Berlino, Londra più vicina
La nuova fase del governo francese
La disponibilità al dialogo del nuovo ministro Barnier
di Massimo Nava
PARIGI - Ci sono almeno due fattori che possono rendere più flessibile l’atteggiamento della Francia sulla questione irachena e realizzabile una posizione comune dell’Europa. Il primo sta nella differenza di temperamento e percorsi politici fra il nuovo ministro degli Esteri, Michel Barnier, un autentico «militante europeista», e il suo predecessore, Dominique de Villepin, per spirito più incline ad enfatizzare la visione francese del mondo. Il secondo è l’accelerazione della crisi stessa, il disastroso dopoguerra che - al di là di atteggiamenti muscolari e dichiarazioni di principio - sembra aver convinto Washington della necessità di dividere le responsabilità e i Paesi europei contrari al conflitto dell’impossibilità di voltare le spalle.
Ufficialmente, la posizione della Francia non è cambiata. Lo stesso Barnier e il ministro della Difesa, Michèle Alliot Marie, l’hanno ribadita in questi giorni. In sintesi, si riafferma l’urgenza di trasferire la sovranità agli iracheni, come premessa perché le Nazioni Unite «assumano la responsabilità dell’insieme delle operazioni».
Una partecipazione diretta della Francia, ipotizzata ieri dal Washington Post , non è all’orizzonte, così come un ruolo della Nato, senza il «passaggio» del problema alle Nazioni Unite. Un senatore americano, nei giorni scorsi, aveva rivelato la disponibilità del presidente Chirac ad inviare soldati francesi nell’ambito di un’operazione Nato, sempre che ci sia il semaforo verde del Consiglio di Sicurezza.
A Parigi, non è però cambiata la valutazione del conflitto, senza distinzioni di schieramenti politici. Anzi, l’aggravarsi della situazione sul campo rafforza il giudizio sulla guerra sbagliata e, in questo quadro, si notano i limiti della posizione italiana, acritica nei riguardi di Washington. «La guerra in Iraq ha reso persino più difficile la lotta al terrorismo», ha detto nei giorni scorsi l’ex ministro degli Esteri, il socialista Hubert Vedrine. «La guerra ha fatto sprecare risorse umane ed economiche che avrebbero potuto essere impiegate nella lotta al terrorismo, ha minato la credibilità degli Stati Uniti, sia nel mondo islamico sia presso i Paesi amici, e ha ingigantito il risentimento antiamericano», è la valutazione di uno dei massimi studiosi di questioni internazionali, François Heisbourg. D’altra parte, proprio l’ombra del Vietnam fa aumentare la consapevolezza, anche a Parigi, che il capitolo delle recriminazioni e delle ritorsioni (anche economiche) deve essere chiuso per lasciar spazio ad un approccio pragmatico. Il futuro dell’Iraq, si sente dire, non è una faccenda americana, ma riguarda tutti.
Del resto, proprio il club politico di Michel Barnier aveva elaborato, già nel novembre scorso, un documento dal titolo significativo: «Relazioni transatlantiche, la scommessa della fiducia». A Washington, dice una fonte diplomatica, la visione di Powell sta ormai avendo la meglio su quella di Rumsfeld. La nuova posizione assunta dalla Spagna e la revisione di giudizi che comincia ad affacciarsi in Polonia rende anche più ampio lo spazio di dialogo di Parigi e Berlino, gli oppositori della prima ora. Significativa, in questo quadro, la marcia in più impressa al rapporto con Londra in occasione delle celebrazioni dell’«Entente cordiale». Le Monde , che di solito coglie i più piccoli segnali della diplomazia francese, si chiede se l’arrivo di Barnier possa segnare una «réorientation» di Parigi e una «rédéfinition» delle relazioni fra Parigi e Washington.
Ufficialmente, la posizione della Francia non è cambiata. Lo stesso Barnier e il ministro della Difesa, Michèle Alliot Marie, l’hanno ribadita in questi giorni. In sintesi, si riafferma l’urgenza di trasferire la sovranità agli iracheni, come premessa perché le Nazioni Unite «assumano la responsabilità dell’insieme delle operazioni».
Una partecipazione diretta della Francia, ipotizzata ieri dal Washington Post , non è all’orizzonte, così come un ruolo della Nato, senza il «passaggio» del problema alle Nazioni Unite. Un senatore americano, nei giorni scorsi, aveva rivelato la disponibilità del presidente Chirac ad inviare soldati francesi nell’ambito di un’operazione Nato, sempre che ci sia il semaforo verde del Consiglio di Sicurezza.
A Parigi, non è però cambiata la valutazione del conflitto, senza distinzioni di schieramenti politici. Anzi, l’aggravarsi della situazione sul campo rafforza il giudizio sulla guerra sbagliata e, in questo quadro, si notano i limiti della posizione italiana, acritica nei riguardi di Washington. «La guerra in Iraq ha reso persino più difficile la lotta al terrorismo», ha detto nei giorni scorsi l’ex ministro degli Esteri, il socialista Hubert Vedrine. «La guerra ha fatto sprecare risorse umane ed economiche che avrebbero potuto essere impiegate nella lotta al terrorismo, ha minato la credibilità degli Stati Uniti, sia nel mondo islamico sia presso i Paesi amici, e ha ingigantito il risentimento antiamericano», è la valutazione di uno dei massimi studiosi di questioni internazionali, François Heisbourg. D’altra parte, proprio l’ombra del Vietnam fa aumentare la consapevolezza, anche a Parigi, che il capitolo delle recriminazioni e delle ritorsioni (anche economiche) deve essere chiuso per lasciar spazio ad un approccio pragmatico. Il futuro dell’Iraq, si sente dire, non è una faccenda americana, ma riguarda tutti.
Del resto, proprio il club politico di Michel Barnier aveva elaborato, già nel novembre scorso, un documento dal titolo significativo: «Relazioni transatlantiche, la scommessa della fiducia». A Washington, dice una fonte diplomatica, la visione di Powell sta ormai avendo la meglio su quella di Rumsfeld. La nuova posizione assunta dalla Spagna e la revisione di giudizi che comincia ad affacciarsi in Polonia rende anche più ampio lo spazio di dialogo di Parigi e Berlino, gli oppositori della prima ora. Significativa, in questo quadro, la marcia in più impressa al rapporto con Londra in occasione delle celebrazioni dell’«Entente cordiale». Le Monde , che di solito coglie i più piccoli segnali della diplomazia francese, si chiede se l’arrivo di Barnier possa segnare una «réorientation» di Parigi e una «rédéfinition» delle relazioni fra Parigi e Washington.
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