Da La Stampa del 09/04/2004
Singolare decisione sulla crescita troppo rapida
Cina, meglio frenare
di Giulietto Chiesa
Wen Jiabao. Un nome ancora quasi sconosciuto ma che sentiremo spesso in futuro. E' il nuovo premier cinese, l'alter ego del presidente Hu Jintao. E non solo perché probabilmente l'uno e l'altro regneranno a lungo, ma perché la storia li ha messi al vertice del più importante paese del mondo nel momento più importante della storia della Cina: quando essa, per la prima volta, s'identifica con la storia del mondo. Cioè, per meglio dire, con la sua sopravvivenza. E' infatti la prima volta che i cinesi si sentono dire, dopo 25 anni di corsa forsennata allo sviluppo, che bisogna tirare i remi in barca. Altrimenti - ha detto senza mezzi termini Wen Jiabao al Congresso del Popolo - l'intero sistema socio-economico-ambientale della Cina andrà diritto verso un infarto globale.
Dunque bisogna frenare il tasso di crescita. Dopo il fantastico +9,1% del 2003, si deve scendere al +7%. Perché le contraddizioni sono ormai insostenibili. Soprattutto - ecco la novità assoluta - la leadership cinese ha preso atto che l'ambiente, la natura, non può sostenere tassi di crescita come quelli in atto. E' un inedito assoluto, perché non pare che altri paesi si siano posti fino ad ora il problema in questi termini. Kyoto è stato sì una presa di coscienza anche degli Stati, ma è stato, per così dire, uno sforzo collettivo. Pechino va oltre, e si pone il problema degli effetti, anche globali, che il suo problema «nazionale» sta trascinando con sé. Effetti che stanno velocemente assumendo il carattere di irreversibilità.
La Cina è ormai il secondo importatore mondiale di petrolio, dopo gli Stati Uniti. La Cina è già il primo consumatore di cemento, di cui impiega più della metà di tutta la produzione mondiale. Tra non molto, di questo passo, sarà il primo inquinatore mondiale, e l'immensa massa di nuovi consumatori faranno saltare in aria tutti i mercati alimentari del pianeta. Ma energia e acqua sono agli sgoccioli, la desertificazione di immense aree ex rurali sta facendo piovere sabbia addirittura sopra Seul. Già adesso la Cina sorregge l'export giapponese, e fa piangere gli Stati Uniti con l'emigrazione massiccia di impieghi ex americani verso oriente. In compenso Hu Jintao compra, a colpi di centinaia di miliardi di dollari, i debiti americani, e ha già nelle sue casse 120 miliardi di dollari di buoni del tesoro della Federal Reserve.
La Cina è vicina, diceva il titolo di un lontano film di Bellocchio. Ci è arrivata addosso all'improvviso, perché eravamo distratti. Colpa nostra che non sapevamo offrirle niente di meglio che imitarci. Ora si sono accorti da soli che così non si può andare avanti. Non solo per non investire noi, ma soprattutto per non farsi male da soli. Global adesso significa che bisogna frenare tutti insieme.
Dunque bisogna frenare il tasso di crescita. Dopo il fantastico +9,1% del 2003, si deve scendere al +7%. Perché le contraddizioni sono ormai insostenibili. Soprattutto - ecco la novità assoluta - la leadership cinese ha preso atto che l'ambiente, la natura, non può sostenere tassi di crescita come quelli in atto. E' un inedito assoluto, perché non pare che altri paesi si siano posti fino ad ora il problema in questi termini. Kyoto è stato sì una presa di coscienza anche degli Stati, ma è stato, per così dire, uno sforzo collettivo. Pechino va oltre, e si pone il problema degli effetti, anche globali, che il suo problema «nazionale» sta trascinando con sé. Effetti che stanno velocemente assumendo il carattere di irreversibilità.
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