Da Famiglia cristiana del 18/04/2004
Originale su http://www.sanpaolo.org/fc/0416fc/0416fc26.htm

Inferno Irak: scontri, attentati, rapimenti e 450 iracheni uccisi in cinque giorni

E la chiamano pace

Una tragica spirale di sangue e violenza senza fine, in un Paese ormai privo di ogni controllo. Gli errori clamorosi della coalizione occidentale.

di Fulvio Scaglione

Dunque ci hanno spiegato che questa serie di eventi per cui muoiono, sparandosi a vicenda, 300 persone in quattro giorni, non è una guerra. Non è guerra l’azione per cui un esercito potente come quello Usa prima viene cacciato da Falluja e poi la riprende facendosi coprire dai bombardieri. Così come, a quanto pare, non è guerra l’occupazione di due città come Kut e Najaf da parte di gruppi armati, forti di centinaia di uomini. Ci si guardi bene, poi, dal dire che la liberazione con le armi in pugno di tre ponti occupati da uomini armati, cioè quello che è toccato fare ai soldati italiani a Nassiriya, è un’azione di guerra.

Quanto avviene in Irak, dicono dunque i nostri politici, non è guerra. E allora che cos’è? Vogliamo davvero continuare con la favoletta delle poche decine di killer prezzolati di Al Qaida che gettano il seme della discordia in una popolazione altrimenti pacifica e solidale con gli americani? Le immagini delle centinaia di persone che corrono a portare viveri e soccorsi agli insorti delle diverse città dovrebbero bastare a risparmiarcela. E per fortuna Saddam Hussein è detenuto dagli Usa in Qatar, chiuso in cella: fino a poche settimane fa non mancavano i politologi o i generali in pensione pronti a sostenere che era tutta colpa sua, era lui a fomentare gli attacchi, nascosto nel buco con il sacco di dollari accanto.

Come andiamo scrivendo da tempo, la realtà è ben altra. Agli intrighi dei professionisti del terrore si è ormai affiancata l’insoddisfazione e la rabbia di una parte sempre più consistente della popolazione. Verità scomoda e inquietante, ma semplice. Bastava volerla vedere, fin dall’attentato di Nassiriya contro i nostri carabinieri: strage che, per la complessità del piano e i mezzi impiegati, non avrebbe potuto realizzarsi senza la complicità diffusa (che può voler dire aiuto vero e proprio o anche solo indifferenza) di molti iracheni qualunque.


UN’ALLEANZA INEDITA

Adesso la situazione è degenerata al punto che si va formando un’inedita alleanza tra le milizie dei sunniti e degli sciiti, dei tre gruppi etnico-religiosi che compongono il mosaico iracheno (il terzo è quello dei curdi), quelli più tenacemente e crudelmente ostili. Almeno fino all’entrata in scena dei grandi strateghi del pensiero neoconservatore made in Usa. A proposito di milizie: come si sono formate? Com’è possibile trovarsi di fronte, dopo un anno di "liberazione" e "ricostruzione" dell’Irak, dei piccoli eserciti fanatici e disorganizzati ma bene armati e tra loro coordinati?

Due gli errori clamorosi. Con i sunniti, che erano il gruppo prevedibilmente più ostile al nuovo ordine, avendo perso privilegi e rendite garantiti dal regime del sunnita Saddam, lo sbaglio è stato di sciogliere l’esercito del Rais come misura punitiva verso coloro che erano ritenuti i suoi "fedelissimi". Esercito che non aveva quasi per nulla combattuto l’invasione americana e che proprio fedele non doveva quindi essere. Ma quasi un milione di uomini comunque addestrati all’uso delle armi, da un giorno all’altro messi in mezzo a una strada, a cercare di guadagnarsi da vivere e a covare rancore.


DOPPIO ERRORE CON GLI SCIITI

Con gli sciiti, l’errore è stato doppio. Perché agli ordini degli ayatollah c’era già un esercito di 25 mila uomini perfettamente addestrati, le Brigate Sadr formate negli anni della persecuzione di Saddam e, per gli ayatollah, dell’esilio in Iran. Ma i grandi semplificatori Usa hanno dato per scontato che, avendo così tanto patito sotto Saddam e avendolo così aspramente combattuto, gli sciiti fossero per forza dalla parte di chi Saddam era riuscito a cacciarlo. Infatti oggi vediamo Moqtada al-Sadr, figlio del prestigioso ayatollah Mohammed fatto assassinare dal Rais, che incita i suoi fedeli alla lotta armata contro gli odiati americani.

Gli analisti della Casa Bianca non hanno tenuto conto di un fatto chiaro anche all’ultimo dei giornalisti: gli sciiti degli americani non si fidavano fin dal principio. Perché avevano stampato in mente il precedente del 1991, quando l’armata guidata dal generale Schwarzkopf arrivò fino a Kerbala (80 chilometri da Baghdad e 450 dal confine con il Kuwait), incitò gli sciiti alla rivolta e poi lasciò passare la Guardia repubblicana di Saddam, che fece strage di sciiti nelle città sante di Kerbala e Najaf.

Questa volta gli sciiti sono stati a guardare. Non hanno aiutato né ostacolato gli americani, hanno partecipato ai lavori delle istituzioni più o meno provvisorie da loro formate mostrando disciplina (l’ayatollah Al Hakim ha persino presieduto il Consiglio di Governo), ma scarso entusiasmo. Nel frattempo si sono riorganizzati, hanno scavato nelle loro zone nicchie di potere reale all’ombra di quello apparente della coalizione (intorno a Najaf comanda l’ayatollah al Sistani, non certo Paul Bremer) e hanno preso le misure alle tante promesse ricevute. Prima fra tutte quella, particolarmente golosa per un gruppo etnico-religioso che è la maggioranza assoluta della popolazione, di andare a elezioni nel più breve tempo possibile.

Non è un caso se gli sciiti hanno cominciato ad agitare i kalashnikov appena si è capito che le vere elezioni sono rimandate a chissà quando. E ancor meno casuale dev’essere considerato il fatto che Moqtada al-Sadr, per la giovane età e la scarsa cultura disprezzato dagli ayatollah, sia ora uscito così clamorosamente allo scoperto dopo essere stato a lungo emarginato all’interno della stessa comunità sciita. Nonostante Moqtada venga da una delle famiglie più illustri dello sciismo iracheno (è cugino dell’imam Mussa Sadr, figura di riferimento per gli sciiti di tutto il mondo; del padre Mohammed abbiamo già detto), è impossibile credere che gli altri esponenti sciiti, forti di relazioni decennali con i colleghi dell’Iran, siano disposti a lasciargli campo libero. Soprattutto tenendo in conto che controllare Najaf e Kerbala, le città sante, vuol dire metter le mani sugli affari dei pellegrinaggi da cui già Saddam, raggiunto nel 1998 un faticoso accordo con l’Iran, ricavava quasi 50 milioni di dollari l’anno, alla faccia dell’embargo e nonostante che l’afflusso dei pellegrini fosse rigidamente contingentato.

In questa situazione l’Irak si approssima alla fatale scadenza del 30 giugno. Diciamo a parte quanto la data pesi sulla politica americana e sull’eventuale condotta delle operazioni militari sul terreno. Restando all’Irak, è chiaro che gli attacchi e le rivolte sono spontanei solo fino a un certo punto. Rispondono piuttosto all’esigenza che i vari gruppi hanno di "piazzarsi" e di conquistare spazio prima che avvenga il cosiddetto passaggio dei poteri. È chiaro che gli Usa passeranno ben poco al Governo iracheno che verrà formato. Sarà sempre la Casa Bianca a dare gli ordini, a garantire quel minimo di protezione a un Governo debole e posticcio. Il momento, però, dovrebbe servire a George Bush per dire agli americani, in piena campagna elettorale, che la missione è compiuta, la costruzione della democrazia è avviata e i ragazzi in divisa potranno pensare a tornare a casa.

Questo progetto è già saltato. E viene spontaneo collegare le odierne insurrezioni con la strage di Madrid, che ha provocato terremoti politici in Europa, e con la pressione psicologica esercitata sui popoli e sui Governi, quello italiano compreso, dalla strategia dei rapimenti. Se in questo c’è una logica, sta nella tremenda conclusione che la mente del terrore è, adesso, più lucida della nostra.

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