Da La Repubblica del 16/04/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/d/sezioni/politica/iraqita2/audi/audi.html

Il commento

Se la politica si fa con l'auditel

di Curzio Maltese

Il primato della cattiva televisione sulla politica è una tragedia tutta italiana, almeno in queste dimensioni. Una tragedia da Paese ridicolo. Qualcuno riesce a immaginare il ministro degli Esteri inglese, francese o tedesco che trascorra il tempo di una grave emergenza seduto alla poltrona di un talkshow come ha fatto Frattini l'altra sera a Porta a Porta? Non solo, un ministro che rivendica il giorno dopo la balorda scelta sventolando la bandiera dell'audience? È venuta l'ora di domandarsi che cos'è diventato il mostro televisivo che fagocita ogni cosa e riduce tutto a un comune pietrisco di banalità dove tragedia e pettegolezzo si confondono.

Ma soprattutto vale la pena di chiedersi che cosa siano uno Stato e una politica che si lasciano svuotare dalla televisione, per piegarsi al ruolo di ospiti, valletti, servi contenti di un mediocre potere.

Qualcuno ha notato che Vespa sembrava il vero ministro degli Esteri, quello che dava la linea e l'informazione ufficiale, mentre Frattini pareva il segretario, uscito di corsa dagli uffici della Farnesina per arrivare puntuale alla convocazione. Dopo aver liquidato in breve la replica alla Camera per "gravi e urgenti impegni".

Da titolare virtuale della politica estera, il presentatore ha perfino indicato la parola d'ordine, "unità nazionale". Poi ribadita cento volte dai telegiornali e ripresa dagli scribacchini al seguito. Come accade sempre quando lo slogan arriva direttamente dall'Impresario, oggi spaventato dai sondaggi. La tesi è che sui grandi temi le forze politiche debbano evitare le "inutili polemiche" e trovare l'unità d'azione, senza distinzioni di destra e sinistra.

Si tratta del tipico argomentare televisivo. Sinonimo ormai di superficiale, emotivo, provinciale, ricattatorio, antidemocratico e anche infamante per la politica. La democrazia non funziona in questo modo: sulle sciocchezze è lecito litigare all'infinito, sui problemi seri si smette di discutere. Così semmai funziona la televisione. Al contrario, in politica è proprio sui grandi temi che ci si divide. L'unità nazionale sulla guerra è durata poco nell'America che ha avuto l'11 settembre, non c'è mai stata in Spagna, prima e dopo le stragi di Madrid. Non esiste in Italia, dove da un anno la questione irachena segna un confine evidente fra destra e sinistra, fra due modi opposti di guardare alla posizione dell'Italia nel mondo e nel futuro. Nella maggioranza c'è stata l'adesione totale alle tesi dell'amministrazione Bush, perfino estremizzate, insieme alla pretesa di dividere l'Europa in "nuova" e "vecchia", buona e cattiva, secondo lo schema elementare dei conservatori americani.

Nell'opposizione si è risposto con la denuncia dell'illegalità internazionale, il rifiuto di partecipare alla guerra, i più grandi cortei pacifisti della terra e il richiamo all'unità europea. Non è esistito tema meno "unitario" e "bipartisan" della questione irachena, a parte l'ovvio rifiuto del ricatto terrorista. E allora che cos'è l'unità nazionale decisa da mezzibusti e presentatori, a prescindere dal Parlamento, fondata sulle sabbie mobili del sentimentalismo, se non speculazione sul dolore? Dopo aver espropriato le sedi istituzionali, l'ideologia televisiva pretende anche di frullare le categorie della politica nel calderone del luogo comune da talkshow, buono da spalmare su tutto, i destini del mondo come un delitto in famiglia.

Il primato della televisione, oltre al dileggio internazionale, ha procurato al nostro Paese già molti guai. La stessa faciloneria con cui l'Italia è finita nella trappola irachena è figlia di una politica estera svenduta in cambio dell'immagine, barattata con le perline kitch di tre foto ricordo di Berlusconi nel ranch di Bush, qualche parata stelle e strisce, altri scenari di cartapesta. L'ultima visita di Berlusconi a Nassiriya, piazzata nel giorno di maggiore ascolto, con tanto di cappelletto, barzelletta pronta e finale con saltello da stadio, disegna il punto di non ritorno di una politica modellata sull'esigenza del palinsesto. Così distratti dal Luna Park quotidiano, non ci siamo accorti di scivolare in un tunnel di orrore reale. Non abbiamo visto che dietro lo show americano di Berlusconi c'era il ritorno alla vecchia Italietta, isolata e gregaria.

Oggi per uscire dal tunnel sarebbe necessario un ritorno dallo spettacolo alla politica vera, pragmatica, intelligente. Se n'è accorto anche il governo che in Parlamento ha ammesso il sostanziale fallimento dell'operazione irachena e la necessità di ridefinirla con una nuova risoluzione dell'Onu. Ma poi, la sera stessa, è tornato in televisione con la favola della "missione di pace", un inopportuno ottimismo, la difesa d'ufficio degli errori di Bush. A cominciare dal più rovinoso, l'aver portato in Iraq l'arma di distruzione di massa che non c'era: il terrorismo.

Qual è la versione giusta? Dal ceto politico italiano non si pretende che abbia in tasca la soluzione al disastro dell'Iraq, che non ha nessuno, né l'America di Bush né l'Europa pacifista, né l'Onu né il Papa. Ma almeno, questo sì, che abbia la dignità di tornare a fare il suo mestiere, lontano dalla ribalta. Ministri, capi della maggioranza e dell'opposizione, la smettano di partecipare alla tv del dolore, accanto ai parenti delle vittime. La finiscano con questa televendita di sentimenti veri o fasulli. Non s'improvvisa la politica in diretta, sull'onda dell'emozione, piuttosto si usa la televisione per comunicare quanto si è deciso nelle sedi del governo e in Parlamento per proteggere le vite di soldati e normali cittadini messe a rischio con un'avventura sbagliata. Se si è capaci di decidere qualcosa.

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