Da Corriere della Sera del 16/04/2004

La doppia partita

I piani falliti di Bush

di Sergio Romano

Quando il presidente Bush dichiara che gli americani non si lasceranno «cacciare dall’Iraq» lancia un segnale di fermezza. Ma rovescia il linguaggio compiaciuto degli scorsi mesi e riconosce implicitamente ciò che poche settimane fa non avrebbe mai ammesso: la missione non è compiuta, la guerra non è finita. Anziché giocare in attacco, il presidente è ora costretto, sia pure con toni imperiosi, a giocare in difesa. Ne abbiamo avuto una dimostrazione constatando che in Iraq, durante la conferenza stampa di Bush, erano in corso due negoziati di cui gli americani attendevano il risultato: con i sunniti a Falluja e con gli sciiti a Najaf. Da qui occorre partire per comprendere le dichiarazioni presidenziali. Con le armi di cui dispongono, gli americani potrebbero certamente schiacciare la rivolta sciita e distruggere le basi urbane dei guerriglieri sunniti. Ma per ora hanno preferito servirsi di alcuni anziani ayatollah per trattare con i primi e di qualche iracheno moderato per negoziare con i secondi. Continuano a combattere ma senza rinunciare a parlare, sia pure per interposta persona.

La ragione della prudenza è politica, non militare. La vittoria è possibile ma il numero delle vittime civili darebbe agli insorti uno straordinario successo morale.

Diminuirebbe temporaneamente la minaccia dei ribelli, ma crescerebbero la rabbia e il sentimento antiamericano di un’ampia parte della società irachena. Questa prospettiva sarebbe forse accettabile se gli americani fossero disposti a impegnare con gli insorti un lungo braccio di ferro e a governare militarmente l’Iraq per tutto il tempo necessario. Ma accanto alla guerra irachena Bush sta combattendo in patria la sua guerra personale per restare alla Casa Bianca. Le due guerre si sono intrecciate e le ferree scadenze della seconda hanno finito per condizionare il calendario della prima. Per vincere in novembre negli Usa, Bush deve vincere anzitutto in Iraq o, almeno, dare agli elettori la sensazione che la strategia adottata sta dando i suoi frutti. Il piano annunciato negli scorsi mesi (il ritorno dell’Onu, un governo iracheno entro il 30 giugno, l’elezione dell’Assemblea costituente nel gennaio 2005, una Costituzione e un nuovo governo alla fine di quell’anno) non risponde alla logica della situazione irachena. E’ disegnato esclusivamente per le esigenze politico-elettorali di un presidente che vede avvicinarsi con preoccupazione il giorno in cui verrà giudicato dai connazionali. Ma la realtà rischia di mandare il piano in pezzi. Si può costituire un governo iracheno in queste circostanze? Sarà possibile preparare le elezioni? E’ lecito sperare che l’Onu voglia tornare in Iraq? A quest’ultima domanda il Segretario generale ha già dato una cauta risposta. Dopo avere accennato all’insicurezza in Iraq, Kofi Annan ha aggiunto che non può promettere per il momento l’invio di una larga rappresentanza.

Il problema che si dibatte in questi giorni, quindi, non è la sorte della rivolta, che gli americani potrebbero schiacciare, probabilmente, in qualche settimana. Il vero problema è la sorte del piano della Casa Bianca per la rielezione del presidente. Quando dichiara che la scadenza del 30 giugno non verrà modificata e che vi sarà quel giorno un governo iracheno, Bush ci dice in realtà che dal rispetto di quella data dipende il suo futuro politico. E dimentica che i tempi della politica americana non sono quelli della crisi irachena.

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