Da La Stampa del 19/04/2004
Promemoria
Il dominio della televisione sulla democrazia
di Filippo Ceccarelli
Quando la politica dominava la televisione, tutto più o meno filava liscio. Ora che accade esattamente l'opposto, ed è il mezzo a determinare i messaggi del sistema politico, la vita pubblica italiana non conosce un attimo di respiro.
Il Porta a porta sugli ostaggi, con le famiglie e il ministro, l'angoscia e le bugie, la realtà e lo spettacolo, consegna un'evidenza quasi terminale di questo processo. Ma prima, per restare alle ultime settimane, c'erano stati il caso della telefonata di Berlusconi alla trasmissione di calcio, i sospetti d'ingerenza a Sanremo, la documentata invasione di politici nei programmi d'intrattenimento, la polemica sui dati dell'Osservatorio di Pavia, le liti sulla par condicio in periodo elettorale, il negato contraddittorio sempre a Porta a porta sulle grandi opere, le nomine incombenti, la questione degli inviati in Iraq. Più un numero imprecisabile di piccoli casi esplosi nelle reti e nei tg, oltre a quelli che non sono scoppiati, ancora.
Domanda: basta l'auditel a dare un senso a tutto questo? Idea (provocatoria, forse): non sarà il caso di eleggere, oltre a parlamentari, sindaci e governatori, anche chi decide e fa televisione?
Dopo tutto la democrazia potrebbe adeguarsi ai tempi, per quanto dissennati possano apparire, e comunque correggerne le distorsioni. L'attuale sistema, è chiaro, non regge. «Servizio pubblico» è espressione che suona ormai umoristica. C'è da chiedersi se questo avvenga anche perché nessuno è pienamente legittimato a decidere cosa mandare in onda e cosa no. L'esecutivo ci prova fin troppo; la Commissione di Vigilanza è voce nel deserto, come il Garante delle Comunicazioni; di consigli d'amministrazione, a viale Mazzini, ne sono cambiati tre in due anni e s'è ben capito che non c'è garanzia che tenga; gli inserzionisti pubblicitari procedono da padroni, ma l'autorità è un'altra cosa.
Lo spazio televisivo non è più solo un'arena pubblica e un campo di battaglia, ma è divenuto un universo parallelo abbandonato alla più assoluta incertezza e alla più sconfortante ambiguità. In diversi paesi, con vere e proprie elezioni, si scelgono i giudici. In Italia i cittadini-elettori sono stati da tempo trasformati in telespettatori. Ma non si possono esprimere su questa loro condizione, salvo cambiare canale, o spegnere la tv.
Intanto il video continua a popolarsi di maschere che proclamano, si imitano, si picchiano, si baciano a forza sulla bocca, si maledicono, si strizzano i genitali, fanno l'amore, ruttano o mangiano il pesce crudo nei reality-show. Sul tutto c'è il ministro che telefona, quello che querela, quello che casca dal pero, quello che scala le montagne con telecamere al seguito. Quel politico canta, quell'altro balla, quell'altro ancora succhia la granita, mentre la censura si fa prassi, alcuni personaggi scompaiono, altri vengono imposti, ci sono ospiti lottizzati, costanti zuffe sulle dirette, riprese politiche di convenienza, marchette spudorate e giù, giù fino ai presidenti che si fidanzano con vallette e ai direttori generali che si fanno aumentare lo stipendio. Tutto questo senza che il popolo, detto anche pubblico, possa mai intervenire in prima persona.
Né bastava il conflitto d'interessi, e la legge Gasparri, con conseguenti contraccolpi istituzionali. No, adesso c'è anche la guerra, da gestire in tv. Di qui l'idea - disperata nel suo ottimismo - di organizzare una qualche forma di coinvolgimento diretto degli italiani nella scelta dei dirigenti Rai, dei direttori dei tg, del conduttore di Porta a porta, talk-show non a caso designato da Andreotti «terzo ramo del Parlamento».
Ma il Parlamento ogni tanto lo si elegge. Mentre Bruno Vespa lo si trova, sempre. Prendere o lasciare. Ecco: magari oggi lo si potrebbe prendere e poi, domani, eventualmente, lasciare. Se la tv domina la politica, in fondo, non è detto che debba anche essere dominata la democrazia.
Il Porta a porta sugli ostaggi, con le famiglie e il ministro, l'angoscia e le bugie, la realtà e lo spettacolo, consegna un'evidenza quasi terminale di questo processo. Ma prima, per restare alle ultime settimane, c'erano stati il caso della telefonata di Berlusconi alla trasmissione di calcio, i sospetti d'ingerenza a Sanremo, la documentata invasione di politici nei programmi d'intrattenimento, la polemica sui dati dell'Osservatorio di Pavia, le liti sulla par condicio in periodo elettorale, il negato contraddittorio sempre a Porta a porta sulle grandi opere, le nomine incombenti, la questione degli inviati in Iraq. Più un numero imprecisabile di piccoli casi esplosi nelle reti e nei tg, oltre a quelli che non sono scoppiati, ancora.
Domanda: basta l'auditel a dare un senso a tutto questo? Idea (provocatoria, forse): non sarà il caso di eleggere, oltre a parlamentari, sindaci e governatori, anche chi decide e fa televisione?
Dopo tutto la democrazia potrebbe adeguarsi ai tempi, per quanto dissennati possano apparire, e comunque correggerne le distorsioni. L'attuale sistema, è chiaro, non regge. «Servizio pubblico» è espressione che suona ormai umoristica. C'è da chiedersi se questo avvenga anche perché nessuno è pienamente legittimato a decidere cosa mandare in onda e cosa no. L'esecutivo ci prova fin troppo; la Commissione di Vigilanza è voce nel deserto, come il Garante delle Comunicazioni; di consigli d'amministrazione, a viale Mazzini, ne sono cambiati tre in due anni e s'è ben capito che non c'è garanzia che tenga; gli inserzionisti pubblicitari procedono da padroni, ma l'autorità è un'altra cosa.
Lo spazio televisivo non è più solo un'arena pubblica e un campo di battaglia, ma è divenuto un universo parallelo abbandonato alla più assoluta incertezza e alla più sconfortante ambiguità. In diversi paesi, con vere e proprie elezioni, si scelgono i giudici. In Italia i cittadini-elettori sono stati da tempo trasformati in telespettatori. Ma non si possono esprimere su questa loro condizione, salvo cambiare canale, o spegnere la tv.
Intanto il video continua a popolarsi di maschere che proclamano, si imitano, si picchiano, si baciano a forza sulla bocca, si maledicono, si strizzano i genitali, fanno l'amore, ruttano o mangiano il pesce crudo nei reality-show. Sul tutto c'è il ministro che telefona, quello che querela, quello che casca dal pero, quello che scala le montagne con telecamere al seguito. Quel politico canta, quell'altro balla, quell'altro ancora succhia la granita, mentre la censura si fa prassi, alcuni personaggi scompaiono, altri vengono imposti, ci sono ospiti lottizzati, costanti zuffe sulle dirette, riprese politiche di convenienza, marchette spudorate e giù, giù fino ai presidenti che si fidanzano con vallette e ai direttori generali che si fanno aumentare lo stipendio. Tutto questo senza che il popolo, detto anche pubblico, possa mai intervenire in prima persona.
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