Da La Repubblica del 24/04/2004
Libere elezioni e maturità politica a dispetto delle previsioni dell´Occidente
Storia di un paese che vinse senza odiare
Se le tensioni inter-etniche non si risolsero in bagni di sangue lo si deve alla grandezza dell´African National Congress e al suo leader Mandela
di Pietro Veronese
La storia non è prodiga di miracoli e quelle rare volte che davvero li elargisce, nessuno è disposto a crederci. Così accadde all´alba del 27 aprile 1994. Tutti i profeti di sventura del mondo mediatico si erano dati convegno a Johannesburg. La Cnn aveva mandato colui che era ancora, a quel tempo, il principe dei suoi inviati di guerra, Peter Arnett. E lui si era attrezzato con la parabola sul tetto dell´albergo, come aveva fatto a Bagdad nei mitici giorni della guerra del Golfo, tre anni prima. Forse si aspettava qualcosa di simile. Era comunque comune sentire che il voto sudafricano, il primo voto a suffragio universale nella storia di quel paese, si sarebbe risolto in un bagno di sangue.
Fu invece una giornata radiosa e una grandiosa festa democratica. Come fedeli di una stessa religione, sacerdoti di un comune mistero, in silenzio e disciplina, a chilometri, a milioni, i neri di tutto il Sudafrica si misero in coda davanti ai seggi elettorali. Un popolo eletto, che vedeva sorgere infine l´aurora della grande traversata dalla schiavitù alla libertà. Anime che vedevano esaudita la preghiera di generazioni, la pazienza, la passione, la sofferenza e la morte di tante migliaia di loro. Cittadini del mondo, perfettamente pronti da tempo, che aspettavano solo il momento in cui il loro diritto sarebbe stato riconosciuto. Maestri di tacita dignità, per tutti i razzisti convinti che la democrazia non è roba da neri.
Il senso di quella giornata fu soprattutto ideale. Lo spettacolo di maturità politica offerto dagli elettori sudafricani servì ad affermare un principio. Il principio secondo il quale la democrazia è un valore universale. Nei mesi e negli anni che avevano preceduto quello storico 27 aprile, intellettuali e politologi dalle impeccabili credenziali liberal si erano affannati a spiegare che il Sudafrica avrebbe dovuto fare eccezione. Il concetto «un uomo, un voto» lì non si sarebbe potuto applicare. Avrebbe significato una nuova oppressione, il dominio razziale della maggioranza nera sulla minoranza bianca. Il desiderio di rivalsa avrebbe avuto la meglio sulle migliori delle intenzioni. I neri avrebbe restituito con gli interessi ai bianchi sudafricani i decenni di iniquità e di sopraffazione che avevano dovuto patire. Soprattutto, si sarebbero divisi tra di loro e il Sudafrica sarebbe precipitato in una guerra tribale. Gli zulu non avrebbero mai accettato il predominio dei xhosa. Guru e soloni della scienza politica consigliavano perciò una specie di "cantonizzazione" su base razziale o tribale, analoga a quella che veniva proposta in quegli stessi anni - con lo stesso grado di insuccesso - per la Bosnia-Erzegovina in guerra.
Sono passati dieci anni e due elezioni, ciascuna delle quali ha fatto meno storia della precedente. Il Sudafrica è oggi, nell´anno di grazia 2004 e nel continente delle dittature, una democrazia tranquilla. Nessuna di quelle profezie di sventura si è avverata. I problemi sono infiniti, ma chi non ne ha? Chi non ne ha, in Africa?
Se torniamo a quella fine aprile ?94, dobbiamo aggiungere che la miopia dell´Occidente sulle vicende africane ebbe in quelle stesse ore un´altra, devastante, sconvolgente conferma. In Sudafrica tutti gridavano a un massacro che non ci fu. Poco più a nord, in Ruanda, stava invece raggiungendo il parossismo l´ecatombe dei tutsi ruandesi. Lì accadde esattamente il contrario: quello che si andava preparando era stato documentato, denunciato, preannunciato. Ma nessuno intervenne. Chi aveva il potere di intervenire ed impedire le stragi - Gli Stati Uniti, la Francia, il Consiglio di sicurezza dell´Onu - non fece nulla. Sapevano, e non agirono. Anche noi giornalisti rifiutammo di distogliere lo sguardo dalla festa sudafricana per interessarci piuttosto a quei cadaveri che i grandi fiumi ruandesi, il Nyabarongo e l´Akagera, trascinavano via a migliaia nelle loro acque limacciose verso l´immensità del lago Vittoria. Il Sudafrica gioiva, il Ruanda moriva, e dieci anni dopo i due ricordi non possono andare l´uno senza l´altro. Giovi almeno l´orrore ruandese ad esaltare retrospettivamente la grandezza dei dirigenti del Sudafrica del dopo-apartheid, i quali seppero evitare al proprio paese un´analoga deriva di sangue.
Il rischio, infatti, c´era e la profezia non era inverosimile. La voglia di ripagare i bianchi per il male che avevano inflitto era grande. Le tensioni inter-etniche erano accesissime e in effetti nel KwaZulu-Natal era in corso un feroce scontro politico a forte connotazione tribale, che causava centinaia di morti. (Si sapeva allora, e si è dimostrato ampiamente poi, che la guerra per bande del Natal era aizzata e fomentata dal morente regime dell´apartheid). Se tutto questo non degenerò, se il bagno di sangue non ci fu, lo si deve a molte buone ragioni ma ad una soprattutto: la grandezza del gruppo dirigente dell´African National Congress e in particolare del suo leader, Nelson Mandela. Oggi Mandela è un meraviglioso vecchio sorridente, che va a votare appoggiato al bastone e sorretto da mani sollecite. E´ da tempo in pensione, dopo il primo mandato presidenziale. E´ un´icona pop di richiamo globale, ama farsi ritrarre con Bono Vox e Naomi Campbell. Ma prima di tutto questo egli è stato uno statista di statura mondiale, forse il più grande del secolo nel quale è nato e uno dei massimi di tutti i tempi. Nessuno quanto lui ha saputo elevarsi al di sopra della propria storia e delle proprie tentazioni, tendere la mano a nemici feroci, predicare e praticare la riconciliazione, ricostruire moralmente un paese. Viva Nelson Mandela, davvero.
Il Sudafrica del secondo decennio si presenta pur sempre come un paese pieno di incognite. L´African National Congress ha superato in queste ultime elezioni la fatidica soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, che gli consente di modificare a piacimento la Costituzione. Potrà, se vorrà, farsi regime: il rischio è presente. L´Aids resta una terribile emergenza nazionale, che continua a falcidiare la generazione di mezzo, mietendo decine di migliaia di vite. La guerra razziale non c´è stata ma l´emorragia dei bianchi - frustrati, insoddisfatti, spesso marginalizzati nelle professioni e nel business - continua. La storia, insomma, non è finita - ma nessuno s´è mai illuso che lo fosse.
Fu invece una giornata radiosa e una grandiosa festa democratica. Come fedeli di una stessa religione, sacerdoti di un comune mistero, in silenzio e disciplina, a chilometri, a milioni, i neri di tutto il Sudafrica si misero in coda davanti ai seggi elettorali. Un popolo eletto, che vedeva sorgere infine l´aurora della grande traversata dalla schiavitù alla libertà. Anime che vedevano esaudita la preghiera di generazioni, la pazienza, la passione, la sofferenza e la morte di tante migliaia di loro. Cittadini del mondo, perfettamente pronti da tempo, che aspettavano solo il momento in cui il loro diritto sarebbe stato riconosciuto. Maestri di tacita dignità, per tutti i razzisti convinti che la democrazia non è roba da neri.
Il senso di quella giornata fu soprattutto ideale. Lo spettacolo di maturità politica offerto dagli elettori sudafricani servì ad affermare un principio. Il principio secondo il quale la democrazia è un valore universale. Nei mesi e negli anni che avevano preceduto quello storico 27 aprile, intellettuali e politologi dalle impeccabili credenziali liberal si erano affannati a spiegare che il Sudafrica avrebbe dovuto fare eccezione. Il concetto «un uomo, un voto» lì non si sarebbe potuto applicare. Avrebbe significato una nuova oppressione, il dominio razziale della maggioranza nera sulla minoranza bianca. Il desiderio di rivalsa avrebbe avuto la meglio sulle migliori delle intenzioni. I neri avrebbe restituito con gli interessi ai bianchi sudafricani i decenni di iniquità e di sopraffazione che avevano dovuto patire. Soprattutto, si sarebbero divisi tra di loro e il Sudafrica sarebbe precipitato in una guerra tribale. Gli zulu non avrebbero mai accettato il predominio dei xhosa. Guru e soloni della scienza politica consigliavano perciò una specie di "cantonizzazione" su base razziale o tribale, analoga a quella che veniva proposta in quegli stessi anni - con lo stesso grado di insuccesso - per la Bosnia-Erzegovina in guerra.
Sono passati dieci anni e due elezioni, ciascuna delle quali ha fatto meno storia della precedente. Il Sudafrica è oggi, nell´anno di grazia 2004 e nel continente delle dittature, una democrazia tranquilla. Nessuna di quelle profezie di sventura si è avverata. I problemi sono infiniti, ma chi non ne ha? Chi non ne ha, in Africa?
Se torniamo a quella fine aprile ?94, dobbiamo aggiungere che la miopia dell´Occidente sulle vicende africane ebbe in quelle stesse ore un´altra, devastante, sconvolgente conferma. In Sudafrica tutti gridavano a un massacro che non ci fu. Poco più a nord, in Ruanda, stava invece raggiungendo il parossismo l´ecatombe dei tutsi ruandesi. Lì accadde esattamente il contrario: quello che si andava preparando era stato documentato, denunciato, preannunciato. Ma nessuno intervenne. Chi aveva il potere di intervenire ed impedire le stragi - Gli Stati Uniti, la Francia, il Consiglio di sicurezza dell´Onu - non fece nulla. Sapevano, e non agirono. Anche noi giornalisti rifiutammo di distogliere lo sguardo dalla festa sudafricana per interessarci piuttosto a quei cadaveri che i grandi fiumi ruandesi, il Nyabarongo e l´Akagera, trascinavano via a migliaia nelle loro acque limacciose verso l´immensità del lago Vittoria. Il Sudafrica gioiva, il Ruanda moriva, e dieci anni dopo i due ricordi non possono andare l´uno senza l´altro. Giovi almeno l´orrore ruandese ad esaltare retrospettivamente la grandezza dei dirigenti del Sudafrica del dopo-apartheid, i quali seppero evitare al proprio paese un´analoga deriva di sangue.
Il rischio, infatti, c´era e la profezia non era inverosimile. La voglia di ripagare i bianchi per il male che avevano inflitto era grande. Le tensioni inter-etniche erano accesissime e in effetti nel KwaZulu-Natal era in corso un feroce scontro politico a forte connotazione tribale, che causava centinaia di morti. (Si sapeva allora, e si è dimostrato ampiamente poi, che la guerra per bande del Natal era aizzata e fomentata dal morente regime dell´apartheid). Se tutto questo non degenerò, se il bagno di sangue non ci fu, lo si deve a molte buone ragioni ma ad una soprattutto: la grandezza del gruppo dirigente dell´African National Congress e in particolare del suo leader, Nelson Mandela. Oggi Mandela è un meraviglioso vecchio sorridente, che va a votare appoggiato al bastone e sorretto da mani sollecite. E´ da tempo in pensione, dopo il primo mandato presidenziale. E´ un´icona pop di richiamo globale, ama farsi ritrarre con Bono Vox e Naomi Campbell. Ma prima di tutto questo egli è stato uno statista di statura mondiale, forse il più grande del secolo nel quale è nato e uno dei massimi di tutti i tempi. Nessuno quanto lui ha saputo elevarsi al di sopra della propria storia e delle proprie tentazioni, tendere la mano a nemici feroci, predicare e praticare la riconciliazione, ricostruire moralmente un paese. Viva Nelson Mandela, davvero.
Il Sudafrica del secondo decennio si presenta pur sempre come un paese pieno di incognite. L´African National Congress ha superato in queste ultime elezioni la fatidica soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, che gli consente di modificare a piacimento la Costituzione. Potrà, se vorrà, farsi regime: il rischio è presente. L´Aids resta una terribile emergenza nazionale, che continua a falcidiare la generazione di mezzo, mietendo decine di migliaia di vite. La guerra razziale non c´è stata ma l´emorragia dei bianchi - frustrati, insoddisfatti, spesso marginalizzati nelle professioni e nel business - continua. La storia, insomma, non è finita - ma nessuno s´è mai illuso che lo fosse.
Sullo stesso argomento
In biblioteca
di Nelson Mandela
Feltrinelli Editore, 1997
Feltrinelli Editore, 1997