Da La Repubblica del 26/04/2004

Volontari Caritas nei quartieri e nei caseggiati: così cambia l´assistenza ai nuovi poveri

La solidarietà di condominio

Il progetto partito in otto città: sentinelle nei caseggiati per scovare i casi a rischio
Oggi che il tempo è denaro e che entrambi scarseggiano, i piccoli favori valgono oro
Migliaia di famiglie medie risucchiate nella miseria
Cambia anche il modo di assistere le persone in difficoltà

di Michele Smargiassi

CUNEO - Sentinella, a che punto è la notte? Da vent´anni Nella Lanzavecchia sta di vedetta, ma l´alba non l´ha ancora avvistata: «Ho visto tante porte chiuse, invece. Ho visto crescere l´indifferenza». Nella la sentinella però non cede allo sconforto e resta lì dove la piazzò don Romano, in via Beppe Fenoglio civico 9, che è poi casa sua, una delle tante e neppure orrende palazzine a due-tre piani del quartiere San Paolo di Cuneo, appendice residenziale spuntata come un fungo alla fine degli anni Settanta a sud della città. Resta lì e continua a vigilare contro le offensive del nemico oscuro che si chiama povertà, disagio, solitudine. È una delle sentinelle con più anzianità di servizio: «Ero nel gruppetto delle prime, poi arrivammo ad essere 91, quasi una sentinella in ogni condominio». Parroco di San Paolo, chiesa nuova in quartiere nuovo, Don Romano Marchisio era un prete di quelli che vedono oltre il sagrato. Un piccolo profeta. Era l´alba degli anni Ottanta, esordiva il decennio dell´edonismo, del rampantismo, delle merci, della Borsa e dei Bot: ma lui temeva già la povertà diffusa e nascosta, la povertà dei non-poveri, la povertà che si vergogna, la povertà invisibile della porta accanto, quella che è esplosa oggi. «Ci chiamò un giorno in parrocchia. Tutte famiglie appena traslocate, ancora un po´ spaesate. Ci parlò a lungo, ci disse: il parroco non ha occhi dappertutto. Sarete voi i miei occhi». Reclutò così i suoi primi «animatori di zona», ovvero «antenne di caseggiato», o ancora «sentinelle di condominio». E loro presero molto sul serio la coscrizione della solidarietà. «Nella prima famiglia avvistata c´era un ragazzo cerebroleso che aveva bisogno di esercizi di ginnastica ogni giorno ma loro non potevano permettersi un istruttore privato. Trovammo cinque persone disposte ad aiutarlo. Ora quel bambino ha 12 anni, va a scuola». I rapporti delle sentinelle erano tanti, dettagliati. «La signora del secondo piano non sa come portare i figli all´asilo», «I due anziani della scala B hanno un problema con la lavatrice», don Romano annotava, telefonava, trovava quasi sempre l´idraulico generoso, la baby-sitter volontaria: «Ci servono i tuoi talenti?».

Sono cambiate molte cose nel quartiere San Paolo. Don Romano non c´è più: un incidente l´ha portato via due anni fa. La popolazione è triplicata: ora sono settemila persone, «difficile conoscersi tutti». Le sentinelle si sono un po´ disperse. «Proprio adesso che la gente è più povera di denaro e di spirito», si duole Nella, «questa esperienza non può morire». Forse non accadrà. Qualcuno, a Roma, s´è ricordato di don Romano e del suo piccolo esercito senza armi. Un anno fa la Caritas italiana e la Pastorale per le famiglie della Cei hanno rispolverato quell´idea, l´hanno studiata e l´hanno rilanciata come progetto sperimentale per affrontare le nuove povertà, titolo: «Famiglie solidali», concetto base: il rischio-povertà delle famiglie che lavorano non viene solo dal portafoglio magro ma anche dalle relazioni personali che mancano, obiettivo: ricostruire il «capitale sociale» che le famiglie tradizionali possedevano fino all´esplosione della famiglia mononucleare.

Otto diocesi hanno accettato di fare le pioniere. Le «sentinelle» di don Romano adesso si chiamano più modernamente tutor, ma il principio è più o meno lo stesso: l´auto-aiuto, la vicinanza, la solidarietà della porta accanto. «C´era una volta la cultura della tazza di zucchero», spiega Tommy Raynero, coordinatore del progetto a Cuneo, «si ricorda? Si bussava alla posta accanto per i piccoli e i grandi favori. Oggi se ti si rompe la tapparella chiami un artigiano, e lo paghi caro. Tornare ai piccoli scambi di favori vale oro, oggi che la povertà ha il volto delle famiglie normali».

Può funzionare? Grazia Moraglio, un´altra delle reclute di don Romano, per anni ha gestito la «banca della solidarietà», una banca senza interessi e senza rimborsi: «Chi aveva bisogno di un aiuto, veniva in parrocchia a chiedeva: i bimbi da badare per un paio d´ore, il rubinetto che perde? Qualcuno disponibile si trovava sempre». Adesso? «Troviamo ancora un po´ disponibilità, spesso più tra i laici che tra i parrocchiani. Ma sempre meno. Siamo diventati più poveri anche di tempo, ce n´è poco da regalare agli altri».

La spontaneità, comunque, non basta più. Nelle otto città dove il progetto è faticosamente partito, le «famiglie solidali» seguono un corso strutturato. Si specializzano. A Reggio Calabria, ad esempio, Nuccio e Lisa Vadalà hanno scelto di aiutare le famiglie in difficoltà economiche per la presenza di un malato mentale: «Ne abbiamo scoperte un centinaio solo nelle quattro parrocchie della zona sud». A Lecce don Gerardo Ippolito è riuscito a reclutare venti famiglie in due parrocchie, santa Rosa e Campi Salentino: «Ciascuna ha adottato un´altra famiglia più bisognosa, la segue ogni giorno, la aiuta, fa fronte a qualche debituccio? Sono famiglie in gamba, peccato non ce ne siano di più». A Pistoia Massimo e Angela Rinchi hanno smesso di portare i pacchi-viveri una volta all´anno, «non serve a nulla, tu te ne vai con la coscienza pulita ma il bisogno resta», e si sono messi a scavare nel rischio-povertà delle donne sole: «C´è una mamma albanese con figlia piccola, fa la cameriera in pizzeria, ma di sera l´asilo non c´è, stava per rinunciare: abbiamo organizzato turni di babysitteraggio, ora quella donna può respirare». A Torino il Sermig di Ernesto Olivero assiste ormai il 6 per cento dei suoi «clienti» nei «condomìni solidali»: «È iniziato quasi per caso», racconta Claudio Picco, uno dei fondatori dello storico centro pacifista e terzomondista, «nelle palazzine dove sistemiamo le famiglie in difficoltà cominciavano spontaneamente a darsi una mano a vicenda. I pensionati tengono i bambini della coppia che lavora, la coppia fa la spesa per i pensionati e via così. Abbiamo solo incoraggiato questo scambio tra famiglie zoppe che trovano una stampella in altre famiglie diversamente zoppe».

Se funzionerà, questo welfare intrafamiliare, questa solidarietà a cortissimo raggio, è presto per dirlo. Se sia giusto che funzioni è oggetto di discussione nelle stesse sale parrocchiali che ci provano. «Qualcuno dice che ci sostituiamo ai doveri dello Stato», ammette Raynero di Cuneo, «qualcuno pensa che se non è una rivoluzione epocale non serve?». Ma a Pistoia suor Francesca Musumeci, francescana con grinta, ha le idee chiare: «Neanche volendo potremmo essere i supplenti della società che non funziona. Si guardi attorno: affitti raddoppiati, contratti a termine, lavoro precario, servizi che scompaiono? Le quindici famiglie del nostro gruppo ?La porta accanto´ non sono ricche, hanno cinque e lo dividono con chi ha tre?». Allora a cosa serve tutto questo sforzo? «Quando i politici finiranno di imbambolarci con la commedia della ricchezza per tutti, quando faranno qualcosa per le famiglie, rischiano di trovare un deserto. Aiutarsi non serve tanto a salvare il portafogli, ma soprattutto lo spirito».

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