Da La Stampa del 28/04/2004

Quel che Vanunu e i suoi fan occidentali non hanno capito: la disponibilità di armi nucleari aiuta le colombe

Israele, la bomba atomica della pace

di Avraham B. Yehoshua

La liberazione di Mordechai Vanunu, la «spia» che rivelò i segreti nucleari di Israele, dopo 18 anni di detenzione, e il clamore dei media intorno a questo evento, hanno riportato in primo piano la questione delle armi atomiche in mano allo Stato ebraico. Al di là delle manifestazioni di sostegno e di simpatia a cui hanno preso parte, a fianco di israeliani, anche cittadini europei e americani, e delle contro-manifestazioni di chi prova rabbia e disprezzo nei confronti dell'ex prigioniero, la questione delle armi atomiche israeliane esige un approfondimento. Quindi, anziché concentrare la nostra curiosità su Vanunu, personaggio eccentrico, faremmo bene a considerarla con più attenzione. Ecco innanzi tutto alcuni antefatti storici per coloro che li avessero dimenticati o non ne fossero mai stati al corrente.

La creazione dello Stato di Israele nel 1948, in seguito alla decisione dell’Onu di dividere l'allora Palestina in due nazioni - palestinese ed ebrea - incontrò l'immediata opposizione non solo dei palestinesi ma anche di tutto il mondo arabo. Dopo la proclamazione dell'indipendenza israeliana gli eserciti di sette paesi arabi invasero il territorio del neonato Stato con l'intento di distruggerlo. Ma le forze armate di Egitto, Siria, Giordania e Libano vennero sconfitte e nel 1949 fu firmato un armistizio che sanciva i confini al momento del cessate il fuoco, rimasti poi immutati fino alla guerra dei Sei giorni nel '67: la famosa linea verde che separava Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.

Gli Stati arabi non considerarono però quell'armistizio come base per futuri accordi di pace ma solo come tregua temporanea, necessaria per riorganizzare le forze armate in vista di un nuovo scontro bellico che avrebbe assicurato loro la vittoria. Quindi, nonostante la pausa nei combattimenti, le minacce di distruzione per Israele continuarono (e in un certo senso sussistono ancora oggi, sia a livello ideologico sia pratico). La preparazione per un nuovo conflitto si intensificò in seguito all'intervento massiccio dell'Unione Sovietica che fornì armi a Egitto, Siria e Iraq, inviò esperti militari e assicurò a queste nazioni un significativo appoggio diplomatico in campo internazionale. Israele si trovò dunque non solo a dover affrontare gli attacchi di terroristi palestinesi provenienti dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza, allora sotto il controllo di Giordania ed Egitto, ma anche minacce di guerra aperta.

In quel periodo, gli anni 50 e 60 del secolo scorso, la politica degli Stati Uniti verso Israele era di moderato sostegno. La fornitura di armi era minima (limitata a missili contraerei) e l'appoggio diplomatico era garantito di misura. La capacità israeliana di sviluppare autonomamente armi era ancora a uno stadio iniziale mentre i governi arabi godevano di aiuti generosi e incondizionati per il loro riarmo e il rapporto di forza tra loro e Israele era di venti a uno.

David Ben Gurion, fondatore di Israele e capo del governo durante i primi 15 anni di vita dello Stato, decise di assicurarne l'esistenza perseguendo in segreto un programma di armamento nucleare. Con l'aiuto della Francia, in quel periodo impegnata contro la lotta di liberazione algerina e quindi in conflitto con il mondo arabo e soprattutto con l'Egitto, reperì i primi materiali utili alla costruzione di una centrale nucleare nel deserto e reclutò scienziati israeliani per realizzare il suo progetto.

Il patto con la Francia, grazie al quale Israele ottenne anche aerei da combattimento e altro sofisticato equipaggiamento militare, dipendeva però tutto sommato dalla sua guerra contro l'Algeria, ed era quindi temporaneo. Nel momento in cui i francesi non ebbero altra scelta che concedere l'indipendenza allo Stato maghrebino ed evacuarono i coloni, iniziarono altresì una politica di miglioramento di rapporti con il mondo arabo e la loro relazione con Israele andò di pari passo raffreddandosi. Ancor prima che scoppiasse la guerra dei Sei giorni, De Gaulle impose un embargo alle spedizioni di armi e di parti di ricambio per attrezzatura militare destinati all'esercito israeliano, una decisione che spinse Israele a reagire con un'azione bellica al blocco impostogli dal dittatore egiziano Nasser nel maggio 1967.

In quel periodo la centrale nucleare israeliana era già operativa e lo Stato ebraico non aveva più bisogno dell'aiuto di scienziati francesi o di altre nazioni. L'impianto rimaneva tuttavia segreto. Israele negò a più riprese di possedere armi atomiche e rimase fedele alla formula, più volte ripetuta, che non sarebbe stato il primo a introdurre simili armi in Medio Oriente; una dichiarazione da cui è possibile dedurre che nel caso qualcun altro lo avesse fatto, anche con l'aiuto di una potenza straniera (come l'Urss), lo Stato ebraico avrebbe agito di conseguenza.

Ciò che è strano, e interessante, è che il mondo intero (non solo le nazioni occidentali ma anche quelle comuniste e arabe) nonostante i molti e giustificati dubbi circa le dichiarazioni israeliane, scelse di non approfondire la questione e non fece pressione su Israele perché accettasse la presenza di ispettori o cessasse la sua attività nucleare. Quasi che gli Stati del mondo libero, e persino di quello comunista, convenissero tacitamente e di comune accordo di non dibattere pubblicamente la questione, ammettendo che dopo la Shoah, durante la quale furono sterminati sei milioni di ebrei in cinque anni di guerra, Israele possedesse il diritto morale di sviluppare armi in grado di dissuadere chiunque da un nuovo tentativo di sterminio. E poiché loro, le nazioni libere, non potevano garantire la sua sicurezza, il minuscolo Stato ebraico avrebbe fatto meglio a possedere tali armi.

La cosa paradossale è che anche i leader arabi preferirono prestare mano a questa «congiura del silenzio» evitando di portare la questione delle armi atomiche israeliane all'attenzione internazionale.

E questo per due motivi: se davvero Israele possedeva armi di distruzione di massa, come avrebbero potuto continuare a infiammare le folle con la retorica di una possibile, futura distruzione del nemico sionista? E se d'altro canto quelle armi esistevano veramente, ecco un buon alibi da usare con le masse in attesa dell'annientamento dello Stato ebraico per non impegnarsi in un'azione militare violenta e non correre il rischio di una reazione devastante. E questo è forse anche il motivo per cui gli egiziani, e soprattutto i siriani, fermarono la loro impressionante avanzata nei primi giorni della guerra del Kippur nell'ottobre del 1973: una sconfitta troppo bruciante avrebbe potuto spingere Israele a far uso delle sue armi letali.

Per contro Israele sapeva, e sa tuttora, che il possesso di armi atomiche è un deterrente utile nei momenti di sconfitta ma non offre alcun vantaggio pratico in una guerra convenzionale o nella lotta contro il terrorismo. Le enormi scorte nucleari di Stati Uniti e Unione Sovietica non impedirono infatti la sconfitta di queste due potenze in Vietnam o in Afghanistan. Le armi atomiche israeliane sono dunque rimaste in una zona d'ombra, come una sorta di ambigua polizza di assicurazione preventiva di cui il mondo intero è disposto a ignorare l'esistenza finché non si giungerà a una soluzione definitiva del conflitto mediorientale. La cosa incredibile è che anche dopo la pubblicazione delle dettagliate rivelazioni di Mordechai Vanunu sul giornale inglese Sunday Times a metà degli anni 80, con tanto di fotografie riprese clandestinamente nei luoghi più segreti della centrale atomica israeliana, la congiura del silenzio non è stata violata. In un'epoca in cui la voglia di saperne di più ci porta a oltrepassare ogni limite - soprattutto per quanto riguarda il Medio Oriente, una regione al centro dell'interesse pubblico - appare sbalorditivo che la questione delle armi atomiche israeliane venga concordemente lasciata in disparte. Tutti sanno che esistono ma nessuno è pronto a trarne le dovute conclusioni.

All'interno di Israele la presenza delle armi nucleari convalida le posizioni politiche dei sostenitori della pace, i quali asseriscono che è possibile rinunciare a zone strategiche del Sinai, delle alture del Golan e persino della Cisgiordania, giacché le armi nucleari in nostro possesso basteranno a dissuadere gli arabi dall'intraprendere una guerra totale contro di noi. Questa era anche la linea politica di Ben Gurion, il padre del programma nucleare israeliano, che dopo la guerra dei Sei giorni (ormai già fuori dell'arena politica) dichiarò che era necessario restituire tutti i territori conquistati ai palestinesi, eccezion fatta per Gerusalemme Est.

Ritengo quindi strano che pacifisti giunti dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti tengano dimostrazioni davanti al carcere dove era rinchiuso Vanunu (che in uno dei suoi confusi discorsi ha preteso la distruzione della centrale nucleare israeliana). Mi pare assurdo che cittadini inglesi e americani, i cui governi possiedono enormi scorte di armi nucleari pur non essendo soggetti a minacce di alcun genere, manifestino contro l'arsenale atomico israeliano; forse farebbero meglio a protestare prima a casa loro.

Ma nel momento in cui giungerà la pace e gli Stati arabi abbandoneranno le minacce di distruzione di Israele, sarà legittimo chiedere a quest'ultimo di aprire la sua centrale nucleare a ispezioni internazionali e di rispettare le convenzioni per la non proliferazione di armi nucleari. Allora arriverà il momento di sollevare una volta per tutte il velo di segretezza sull'argomento e di infrangere il tabù del silenzio. Un simile passo sarà importante sia su un piano politico sia su quello della sicurezza, al fine di evitare una catastrofe ecologica come quella di Cernobil. Forse allora, in quei futuri giorni di serenità, ci si rammenterà della vicenda di un personaggio stravagante, un certo Mordechai Vanunu, ebreo-cristiano, che causò a se stesso grandi sofferenze.

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