Da La Repubblica del 01/05/2004

Boss di Cosa Nostra fino agli anni Ottanta, si è spento in carcere negli Usa dove sarà sepolto

Badalamenti, l´ultimo Padrino è morto con tutti i suoi segreti

Condannato per l´omicidio Impastato, aveva 81 anni

La giustizia italiana l´ha inseguito per 50 anni, poi fu incastrato per traffico di droga

di Attilio Bolzoni

Era il «custode di tanti segreti degli ultimi sessant´anni», come ha ricordato ieri il procuratore Grasso. Aveva ottant´anni, era detenuto nelle carceri americane dal 1984 e lì negli States sarà sepolto. Ma in realtà il Padrino era morto già vent´anni fa. Morto da quel giorno d´ottobre dell´84 quando scoprì che l´amico più caro aveva tradito. E raccontato tutto al giudice Falcone. Disse ai suoi: «Miii, se pure Masino è arrivato così in fondo significa che la nostra bella Cosa Nostra questa volta è finita per sempre». Gli credettero in pochi. E sbagliarono. Sbagliarono a non dare retta a quel vecchio con la faccia cotta dal sole che non parlava mai a vanvera, che pesava ogni sussurro, che si faceva ubbidire perfino con un lampo degli occhi. Ma ormai lui era rassegnato anche se mezza Sicilia ancora lo venerava. Sapeva che era l´inizio della fine anche per il grande Gaetano Badalamenti da Cinisi, mafioso di quinta generazione, stalle piene di buoi e amici onorevoli a Roma, tanti soldi e tantissimi segreti. Si sentiva onnipotente. Ma per la prima volta aveva una paura da morire.

In verità, già da un bel po´ prima del pentimento di Buscetta aveva capito che era cambiato tutto, che a Palermo le cose non andavano come sarebbero dovute andare. Colpa di Totò Riina e di quei Corleonesi che erano scesi dalle montagne per conquistare la capitale della Sicilia. Li odiava quei contadini cresciuti nei boschi della Rocca Busambra. Li giudicava «pazzi», razza mafiosa inferiore, sconsiderati che non volevano mai trattare con lo Stato. Di loro diceva: «Ci consumeranno tutti, ci porteranno alla rovina». Era uno che conosceva il mondo don Tano. Era uno "all´antica", ma era stato anche il primo a scoprire il bisinisso dell´eroina con Lucky Luciano. Era amico dei boss e amico degli sbirri. Era amico di tutti. E da mezzo secolo comandava forse come nessun altro.

Il suo potere gli veniva anche dai parenti. Ne aveva di qua e di là dell´Atlantico. I suoi cognati di Alcamo se la facevano con i Bonanno di New York, i suoi generi con i Maggaddino di Buffalo. Suo fratello Emanuele andava avanti e indietro da Cinisi a Detroit. E c´era un jumbo che ogni settimana decollava da Punta Raisi e puntava diretto verso gli States. Lo chiamavano il Padrino: in onore suo, di don Tano, che intanto all´aeroporto aveva fatto assumere tutti i suoi compari che riempivano e svuotavano valige. Di droga e di dollari.

Per un certo periodo - ma in un passato lontano - fu proprio il re di Cinisi ad accogliere Totò Riina e Bernardo Provenzano, gli odiatissimi Corleonesi. Li usava come "canazzi da catena", li scioglieva per uccidere e poi li riattacava. Ma pressappoco quando don Tano fu nominato capo della Cupola (il "governo" di Cosa Nostra), quelli gli si rivoltarono contro e gli sterminarono mezza famiglia. Lui fu costretto a peregrinare per le Americhe, gli amici che restarono in Sicilia - un migliaio - vennero uccisi uno dopo l´altro.

Fu don Masino a confidare a Giovanni Falcone la rete di potere che aveva don Tano. Alla Regione. In Parlamento. E soprattutto con quei cugini di Salemi, gli esattori, Nino e Ignazio Salvo, vicerè della Sicilia che erano diventati il "polmone finanziario" della Dc siciliana. E soprattutto con quell´intoccabile di Salvo Lima, il luogotenente di Giulio Andretti in Sicilia. Patti. E ricatti. Uomini politici e uomini d´onore che si confondevano in una Palermo sospesa, lontana. Garantivano insieme una "pace sociale" durata trent´anni e anche più. Fino alle "cantate" dei pentiti. Fino ai grandi processi. Fu proprio Buscetta a riferire al procuratore Caselli: «Una volta Tano mi riferì che aveva incontrato Andreotti nel suo studio a Roma per aggiustare un processo e che Andreotti lo elogiò, gli disse che di gente come lui (Badalamenti, ndr) l´Italia ne aveva bisogno uno per ogni strada». Farneticazioni di don Masino? Come siano finiti i processi "politici" di Palermo è storia nota (assolto Andreotti dall´accusa di mafia, assolto anche a Perugia per l´omicidio di Mino Pecorelli e proprio insieme a Gaetano Badalamenti) ma il vecchio don Tano - nonostante i suoi avvertimenti - non ha mai pronunciato una sola parola su quegli inconfessabili patti. Solo messaggi. E quasi tutti a Andreotti, che ieri ha ripetuto «In questa vita non l´ho mai incontrato».

La giustizia italiana l´ha inseguito inutilmente per mezzo secolo. Quella americana l´ha pizzicato una volta e non l´ha mollato più. Incastrato per traffico di eroina nel 1985 e condannato a 45 anni di carcere. Da una galera del New Jersey non è mai più uscito. Ma là ha subito l´affronto più grosso per uno come lui. In ritardo di 25 anni - grazie a depistaggi di carabinieri e magistrati siciliani - è stato condannato all´ergastolo per l´omicidio di un ragazzo che in solitudine aveva osato sfidarlo. Lo attaccava ogni giorno dai microfoni della sua piccola radio. Lo sputtanava. Lo chiamava "Tano Seduto". Quel ragazzo si chiamava Giuseppe Impastato. Era di Cinisi. Abitava solo a "cento passi" dalla casa dell´onnipotente.

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