Da Corriere della Sera del 04/05/2004

Nuovo piano per Gaza

L’azzardo di Sharon imbarazza anche Bush

di Antonio Ferrari

Per Sharon, che si considera maestro di strategia ma pecca spesso di presunzione, il referendum di domenica è molto più di una sconfitta. In un colpo solo, il primo ministro è riuscito a deludere la maggioranza degli israeliani, favorevoli al suo piano di ritiro unilaterale da Gaza. E’ riuscito a subire l’umiliante bocciatura del suo stesso partito, il Likud, senza che nessuno l’avesse obbligato a chiederne il parere; a diventare capo di un governo traballante, costretto a chiedere ieri la fiducia alla Knesset, mentre sino al giorno prima era saldamente al timone. E soprattutto a creare un serio imbarazzo al suo migliore alleato, il presidente degli Stati Uniti.

Dopo aver convinto la Casa Bianca che il suo piano era l’unica strada percorribile, tanto che Bush lo aveva definito «un passo importante e coraggioso verso la pace», Sharon ha formulato altre richieste, convincendo il presidente, ormai in piena campagna elettorale, a dichiarare che, nella fase finale dei negoziati, Israele potrà annettere alcuni insediamenti in Cisgiordania, e che i palestinesi dovranno rinunciare al loro diritto a tornare sulle terre che persero durante la guerra per l’indipendenza di Israele. Un impegno «diplomaticamente imbarazzante», come ha detto al Washington Post Samuel W. Lewis, ex ambasciatore Usa a Tel Aviv. Sarebbe stato più opportuno, secondo Lewis, che Bush si limitasse a un sostegno generico al piano. Ora, dopo il referendum, l’imbarazzo è triplo. Perché l’Amministrazione americana deve fronteggiare la crescente irritazione dei leader arabi moderati (come re Abdallah di Giordania e il presidente egiziano Mubarak) per l’eccessivo credito offerto a Sharon, e per l’umiliazione imposta ai palestinesi; perché adesso Washington non è sicura che il premier israeliano, dopo la sonora sconfitta, abbia la forza e il sostegno politico per procedere al ritiro da Gaza. «Noi - dicono al Dipartimento di Stato - rischiamo di pagare un prezzo altissimo senza aver nulla in cambio»; perché, a questo punto, sarà difficile convincere i già scettici alleati europei (Francia, Germania, e persino il fedele Tony Blair) che l’iniziativa di Sharon, che il premier israeliano dovrà in qualche modo riformulare, va sostenuta. Compito improbo quello che attende, a New York, il segretario di Stato Colin Powell, che incontrerà oggi i componenti del Quartetto (Usa, Ue, Onu e Russia) per salvare quel che resta della «road map».

Va detto, in realtà, che la promessa di Bush sulle possibili annessioni, da parte di Israele, di alcuni grandi insediamenti in Cisgiordania non è un’assoluta novità. Persino nell’accordo di Ginevra, firmato dai pacifisti israeliani e palestinesi, si riconosceva che, durante il negoziato fra le parti, si potrebbe procedere a scambi territoriali. Il problema è che Bush ha anticipato, con il peso del suo prestigio, quanto spetta esclusivamente alle trattative dirette fra i protagonisti del conflitto. Anche il crescente risentimento degli arabi, più che legato al piano-Sharon, è dovuto alla convinzione che l’atteggiamento degli Stati Uniti sia cambiato, ovviamente a favore di Israele.

Che gli Usa, nel mondo arabo, in questo momento siano impopolari è fuor di dubbio. La guerra all’Iraq, il dopoguerra, i casi di torture dei detenuti, e soprattutto «la percezione che gli Usa facciano tutto quel che vuole Israele», come dice re Abdallah, hanno alimentato il rancore della gente. E basta frequentare assiduamente i Paesi arabi più moderati della regione per rendersi conto che ogni passo azzardato è un nuovo macigno sulla strada della pace. Forse Sharon può correre il rischio, gli Stati Uniti no.

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