Da La Repubblica del 05/05/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/d/sezioni/esteri/iraq21/zuc/zuc.html
Il commento
Un altro colpo alla Casa Bianca
di Vittorio Zucconi
SAPEVAMO, dalla storia, che le guerre sbagliate, quelle condotte nel nome di false premesse, di casus belli artificiali, di ideologie insieme infantili e prepotenti come quella che ha ammorbato la Casa Bianca, conducono inesorabilmente alla riduzione del nemico a oggetto sul quale scatenare la propria rabbia e la propria frustrazione. Ma restava la speranza che questa armata di soldati di professione e non mercenari, addestrati ed equipaggiati come mai nessun esercito nella storia, ci avrebbero almeno risparmiato il devastante replay dell'orrore che accompagna tutte le guerre di razza, di civiltà e di religione come questa è ogni giorno di più.
Si era intuito dal caso di Guantanamo e dalla detenzione illegale di centinaia di persone, che il ciclope ferito e accecato dall'offesa indelebile dell'11 settembre, era esposto alla tentazione di menare colpi all'impazzata e di cadere nel peccato mortale di agire prima e pensare poi, peccato al quale un uomo di modeste e ostinate capacità come George Bush era particolarmente esposto. Ma i 25 prigionieri morti non per cause naturale mentre era affidati alla "custodia" - si osservi bene la parola - dei vincitori, le centinaia di altri detenuti tormentati e umiliati per il divertimento di soldatacci e dei loro colleghi privati, "contractors", appaltatori delle tortura, questi sì, truci mercenari e lanzichenecchi, scuote il fondamento culturale e politico fondamentale della cosidetta guerra al terrorismo. Che gli invasori, i liberatori, gli occupanti, siano moralmente superiori a coloro che hanno cacciato. Senza questa arma, nessun cannone basterebbe a vincere.
Le atrocità in guerra, e soprattutto nelle cosiddette guerre asimmetriche nella quale l'avversario non può misurarsi a viso aperto, sono purtroppo la norma e non l'eccezione, come ora il Pentagono e il sempre meno credibile Bush ci dicono. Già nel fronte del Pacifico, in quella guerra pur giusta e ancora nobile, Gi e marines, come i loro oppositori Nipponici, si battevano con ferocia personale e implacabile. L'ammiraglio Nimitz dovette intimare ai soldati di non portare a casa teschi di "musi gialli" come ricordo e le infamie contro i prigionieri Usa erano degne dei campi di sterminio nazisti. La ragione, nel 1945 come oggi nel 2004, è sempre la stessa, è il razzismo reciproco, che avvelenava tanto i giapponesi che gli Americani nella loro zuffa mortale.
Eppure questa, ci avevano promesso i teorici della liberazione "shock and awe", i piazzisti della solita favola del "bombardamento chirurgico", sarebbe stata una guerra diversa, una trionfale liberazione che avrebbe mostrato ai popoli liberati, passato il momento dei missili e della cannonate, che l'America di Bush era ancora quella dei cioccolatini e delle sigarette buttati dagli Sherman a Napoli e a Roma, dei baci delle signorine, delle prigioni aperte. La sconvolgente stupidità, spiegabile soltanto con la presunzione e la cecità ideologica, di chi aveva scambiato Bagdad per Parigi, e Falluja per Firenze, è dunque la vera causa dello "horror show" al quale stiamo assistendo e che continuerà con altre rivelazione, come ha assicurato Seymour Hersh, il giornalista che 30 anni or sono scoprì massacro di My Lai in Viet Nam e oggi ha letto il rapporto completo del generale Teguba, il primo a scoperchiare la pentola.
Pagheranno certamente, e speriamo più seriamente di quanto accadde ai cowboy del cielo che uccisero innocenti al Cermis, le "mele marce" che hanno torturato, provocato o permesso la morte del più sacro dei nemici, il prigioniero di guerra, l'inerme sul quale si misura sempre la civiltà del carceriere. Ma se si volesse restaurare la credibilità morale della democrazia americana, non basterebbe mandare davanti alla corte marziale una dozzina di idioti in divisa o una generalessa della riserva che confessa di non avere mai messo piedi nel carcere di Abu Grahib. È chi li ha messi in quelle carceri, in quei campi di prigionia, chi ha dato loro la licenza implicita di tormentare il nemico sempre descritto soltanto come un "terrorista", dunque un "untermensch", un essere subumano anche quando era un passato rastrellato, che dovrebbe pagare. E questo compito dovrebbe spettare alla corte suprema di una democrazia, all'elettorato americano al quale, tra sette mesi, spetterà la sentenza su Bush e la sua guerra del "bene contro il male".
Si era intuito dal caso di Guantanamo e dalla detenzione illegale di centinaia di persone, che il ciclope ferito e accecato dall'offesa indelebile dell'11 settembre, era esposto alla tentazione di menare colpi all'impazzata e di cadere nel peccato mortale di agire prima e pensare poi, peccato al quale un uomo di modeste e ostinate capacità come George Bush era particolarmente esposto. Ma i 25 prigionieri morti non per cause naturale mentre era affidati alla "custodia" - si osservi bene la parola - dei vincitori, le centinaia di altri detenuti tormentati e umiliati per il divertimento di soldatacci e dei loro colleghi privati, "contractors", appaltatori delle tortura, questi sì, truci mercenari e lanzichenecchi, scuote il fondamento culturale e politico fondamentale della cosidetta guerra al terrorismo. Che gli invasori, i liberatori, gli occupanti, siano moralmente superiori a coloro che hanno cacciato. Senza questa arma, nessun cannone basterebbe a vincere.
Le atrocità in guerra, e soprattutto nelle cosiddette guerre asimmetriche nella quale l'avversario non può misurarsi a viso aperto, sono purtroppo la norma e non l'eccezione, come ora il Pentagono e il sempre meno credibile Bush ci dicono. Già nel fronte del Pacifico, in quella guerra pur giusta e ancora nobile, Gi e marines, come i loro oppositori Nipponici, si battevano con ferocia personale e implacabile. L'ammiraglio Nimitz dovette intimare ai soldati di non portare a casa teschi di "musi gialli" come ricordo e le infamie contro i prigionieri Usa erano degne dei campi di sterminio nazisti. La ragione, nel 1945 come oggi nel 2004, è sempre la stessa, è il razzismo reciproco, che avvelenava tanto i giapponesi che gli Americani nella loro zuffa mortale.
Eppure questa, ci avevano promesso i teorici della liberazione "shock and awe", i piazzisti della solita favola del "bombardamento chirurgico", sarebbe stata una guerra diversa, una trionfale liberazione che avrebbe mostrato ai popoli liberati, passato il momento dei missili e della cannonate, che l'America di Bush era ancora quella dei cioccolatini e delle sigarette buttati dagli Sherman a Napoli e a Roma, dei baci delle signorine, delle prigioni aperte. La sconvolgente stupidità, spiegabile soltanto con la presunzione e la cecità ideologica, di chi aveva scambiato Bagdad per Parigi, e Falluja per Firenze, è dunque la vera causa dello "horror show" al quale stiamo assistendo e che continuerà con altre rivelazione, come ha assicurato Seymour Hersh, il giornalista che 30 anni or sono scoprì massacro di My Lai in Viet Nam e oggi ha letto il rapporto completo del generale Teguba, il primo a scoperchiare la pentola.
Pagheranno certamente, e speriamo più seriamente di quanto accadde ai cowboy del cielo che uccisero innocenti al Cermis, le "mele marce" che hanno torturato, provocato o permesso la morte del più sacro dei nemici, il prigioniero di guerra, l'inerme sul quale si misura sempre la civiltà del carceriere. Ma se si volesse restaurare la credibilità morale della democrazia americana, non basterebbe mandare davanti alla corte marziale una dozzina di idioti in divisa o una generalessa della riserva che confessa di non avere mai messo piedi nel carcere di Abu Grahib. È chi li ha messi in quelle carceri, in quei campi di prigionia, chi ha dato loro la licenza implicita di tormentare il nemico sempre descritto soltanto come un "terrorista", dunque un "untermensch", un essere subumano anche quando era un passato rastrellato, che dovrebbe pagare. E questo compito dovrebbe spettare alla corte suprema di una democrazia, all'elettorato americano al quale, tra sette mesi, spetterà la sentenza su Bush e la sua guerra del "bene contro il male".
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