Da Corriere della Sera del 05/05/2004
Firenze, al processo per il delitto del treno interrogati gli agenti feriti. Un poliziotto: ha cercato di sparare anche a me
Il proclama della Lioce: colpire ancora
Nuovo messaggio della brigatista dal carcere: la lotta armata non è finita. Citato anche il ruolo dell’Italia in Iraq
di Giovanni Bianconi
FIRENZE - Le Brigate rosse non sono finite, rappresentano un «punto di non ritorno» nella storia italiana e non saranno la «propaganda» del potere né le strategie anti-eversione messe in campo da polizia e magistratura a fermarle. E’ il messaggio che la brigatista Nadia Desdemona Lioce lancerà oggi dalla gabbia dell’aula bunker di Firenze dove viene processata per l’omicidio del sovrintendente della Polfer Emanuele Petri, ucciso nello scontro a fuoco in cui morì anche il compagno d’armi della donna, Mario Galesi. Un proclama preparato con cura, incentrato sul «ruolo e la storia delle Br», come anticipato dal suo avvocato, Attilio Baccioli, ma con ampi riferimenti alla situazione internazionale, alla guerra in Iraq e al coinvolgimento dell’Italia in quel conflitto. Nadia Lioce l’ha letto e riletto tra sé durante le prime due udienze e oggi lo farà allegare agli atti del processo, come «dichiarazione spontanea». Poi tornerà al rituale silenzio col quale i brigatisti seguono i giudizi a loro carico.
«Gli avanzamenti attuati dalle Br-pcc sul piano del processo rivoluzionario nel nostro Paese - ha scritto la Lioce nel documento -, con il rilancio della strategia della lotta armata per il comunismo, sono processi politici reali, che segnano un punto di non ritorno e trovano sempre il modo di farsi strada nello scontro di potere tra classi». Come dire che le possono arrestare i militanti, ma ce ne saranno sempre altri pronti a impugnare il testimone come lei e altri hanno fatto alla metà degli Anni Novanta, quando i Nuclei comunisti combattenti decisero di fare il salto per riportare alla ribalta il nome e il simbolo delle Br.
L’analisi tiene conto anche di ciò che accade fuori dai confini nazionali, e Nadia Lioce scrive: «Sul piano degli equilibri internazionali, la strategia di dominio e di guerra accelerata dal polo dominante Usa ha dimostrato tutti i suoi limiti, in particolare a fronte di una resistenza nazionale irachena che, immaginata residuale rispetto alla rapida invasione anglo-Usa, si è trasformata in una guerra di popolo per la liberazione del Paese dall’occupazione imperialista». Nel ruolo di occupante le Br inseriscono anche l’Italia, e la militante chiusa in gabbia cita «le truppe italiane di Nassiriya che si sono rese direttamente responsabili di una strage di civili». In questo contesto, tra gli slogan finali del documento compare anche un «Viva la guerra di liberazione nazionale irachena» insieme all’appello «Proletari di tutti i Paesi, uniamoci», oltre al tradizionale omaggio alla memoria del «compagno Mario Galesi» e di «tutti i militanti antimperialisti caduti». Dal carcere arriva dunque, con la firma di colei che viene considerata un «capo carismatico» dell’organizzazione, l’invito ai compagni rimasti liberi a non interrompere l’attività, anche in questa «fase» che sembra segnare un vantaggio da parte dello Stato.
Come tutti i brigatisti, Nadia Lioce afferma di voler rispondere delle proprie azioni solo al proletariato e alla sua organizzazione, e così il processo che si svolge sotto i suoi occhi per lei significa poco o nulla. Significa molto, invece, per lo Stato e per i due poliziotti rimasti in vita che l’arrestarono 14 mesi fa. Ieri i sovrintendenti Giovanni Di Fronzo e Bruno Fortunato (quest’ultimo in pensione a 46 anni per l’invalidità dovuta alle ferite subite) hanno ricostruito ciò che accadde sul treno Roma-Firenze il 2 marzo 2003, tra Terontola e Arezzo, quando Galesi uccise il sovrintendente Petri, e Fortunato, a sua volta colpito, sparò al brigatista ferendolo a morte. Tra le due testimonianze c’è qualche discordanza, soprattutto sui concitati momenti in cui la Lioce s’impossessò della pistola che l’altro poliziotto, Di Fronzo, aveva gettato a terra. Fortunato ha detto che la donna tentò di sparare pure a lui, senza riuscirci, e solo dopo fu ammanettata, «ma da queste deposizioni non si capisce nulla di quel che è successo», protesta l’avvocato Baccioli. Per il legale della vedova Petri, avvocato Biscotti, è invece tutto chiaro, così come per l’accusa rappresentata dal pm Nicolosi e Bocciolini.
Chi sembra disinteressato alla diatriba è proprio Nadia Lioce. «Ha diritto di sedere accanto al suo difensore, vuole usufruirne?», domanda la presidente della Corte d’assise. Ma lei, la militante pronta a lanciare un nuovo proclama di guerra allo Stato, si avvicina al microfono e declina l’invito: «No, grazie».
«Gli avanzamenti attuati dalle Br-pcc sul piano del processo rivoluzionario nel nostro Paese - ha scritto la Lioce nel documento -, con il rilancio della strategia della lotta armata per il comunismo, sono processi politici reali, che segnano un punto di non ritorno e trovano sempre il modo di farsi strada nello scontro di potere tra classi». Come dire che le possono arrestare i militanti, ma ce ne saranno sempre altri pronti a impugnare il testimone come lei e altri hanno fatto alla metà degli Anni Novanta, quando i Nuclei comunisti combattenti decisero di fare il salto per riportare alla ribalta il nome e il simbolo delle Br.
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Come tutti i brigatisti, Nadia Lioce afferma di voler rispondere delle proprie azioni solo al proletariato e alla sua organizzazione, e così il processo che si svolge sotto i suoi occhi per lei significa poco o nulla. Significa molto, invece, per lo Stato e per i due poliziotti rimasti in vita che l’arrestarono 14 mesi fa. Ieri i sovrintendenti Giovanni Di Fronzo e Bruno Fortunato (quest’ultimo in pensione a 46 anni per l’invalidità dovuta alle ferite subite) hanno ricostruito ciò che accadde sul treno Roma-Firenze il 2 marzo 2003, tra Terontola e Arezzo, quando Galesi uccise il sovrintendente Petri, e Fortunato, a sua volta colpito, sparò al brigatista ferendolo a morte. Tra le due testimonianze c’è qualche discordanza, soprattutto sui concitati momenti in cui la Lioce s’impossessò della pistola che l’altro poliziotto, Di Fronzo, aveva gettato a terra. Fortunato ha detto che la donna tentò di sparare pure a lui, senza riuscirci, e solo dopo fu ammanettata, «ma da queste deposizioni non si capisce nulla di quel che è successo», protesta l’avvocato Baccioli. Per il legale della vedova Petri, avvocato Biscotti, è invece tutto chiaro, così come per l’accusa rappresentata dal pm Nicolosi e Bocciolini.
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