Da La Repubblica del 05/05/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/d/sezioni/politica/assettorai/maltese/ma...

Il commento

Il bunker televisivo

di Curzio Maltese

LE DIMISSIONI di Lucia Annunziata mettono fine a un lungo equivoco, all'idea che nell'Italia di Berlusconi potesse esserci spazio per un presidente di garanzia della Rai. Quando non è riconosciuto neppure il diritto minimo a difendere la propria dignità personale e professionale in una corte di servi contenti, come ha fatto per tredici mesi Lucia Annunziata, nel totale isolamento.

Il presidente che doveva garantire il pluralismo della tv di Stato nell'era berlusconiana, non aveva il potere per opporsi all'assalto famelico dei berluscones, allo spoils system praticato come spartizione del bottino fra le truppe, con la benedizione del capo e alla faccia di mezzo Paese.

Non ha potuto impedire le censure continue, l'esilio definitivo di Biagi e Santoro, le ricche nomine di lacché incapaci e le laute ricompense ai maestri di cerimonie del berlusconismo, vedi i cinque miliardi al notaio personale Bruno Vespa. Non ha potuto evitare che il caso Rai, con il suo degrado morale e civile, diventasse lo zimbello della stampa democratica di mezzo mondo. Quello che Lucia Annunziata poteva garantire era sé stessa, la propria dignità appunto, denunciando lo scempio e la vergogna in atto. Lo ha fatto bene, senza fermarsi davanti alla puntuale campagna diffamatoria del coro di giornalisti a libro paga del premier, in libera offerta o in attesa di acquisto. Le dimissioni di ieri suonano nei toni come una porta sbattuta in faccia ai servitori, ancora una volta riuniti in consiglio per decidere le nomine di altri servitori.

È un bel gesto che rimanda il problema alla politica, dopo averne segnalato la gravità. Servirà? Forse no. Sono vent'anni che la politica italiana non capisce o finge di non capire la questione televisiva. Non è bastata la discesa in campo dell'impresario, figurarsi le dimissioni dell'Annunziata. Passi per la destra, che non è mai stata liberale e nel vuoto di valori ha ormai deciso d'identificarsi anima e corpo con il leader. Un po' come i socialisti ai tempi di Craxi. Ma almeno l'opposizione potrebbe trarre dalla vicenda Annunziata qualche utile lezione.

La prima lezione è che non è possibile firmare accordi, patti di principio o gentlemen's agreement con Berlusconi. Per mancanza di materia prima, i principi, i gentlemen, fra l'altro. È incredibile doverlo ripetere dopo tanti anni e una montagna di precedenti.

Berlusconi offre accordi soltanto quando è in difficoltà e li straccia appena la difficoltà è superata. Lo ha fatto da imprenditore, da capo dell'opposizione ai tempi della Bicamerale, da capo del governo. L'inganno della "presidenza di garanzia" serviva a superare la crisi provocata dal rifiuto di Paolo Mieli a fare lo spaventapasseri di sinistra nel sacco berlusconiano di viale Mazzini. E a traghettare il servizio pubblico, senza troppe ribellioni, verso la buona morte (il profetico Gelli scriveva la "dissoluzione") programmata dalla legge Gasparri. L'opposizione ha creduto alle promesse del premier, un bel paradosso, e ovviamente ha sbagliato. È la quarta o quinta volta che accade. In attesa della sesta, magari sulla missione in Iraq, è lecito avanzare qualche dubbio sui risultati concreti del pur encomiabile spirito bipartisan.

L'altra lezione è che nella televisione italiana non esiste alcuna cultura democratica. Non da oggi e non dalla "discesa in campo". Sono passati trent'anni da quando Fruttero e Lucentini hanno scritto che i telegiornali in Italia costituivano una minaccia per la democrazia non inferiore a quella della burocrazia autoritaria o del terrorismo. Non s'è mai fatto nulla per combattere quella minaccia e oggi ci ritroviamo Berlusconi e un'Italietta precipitata al settantesimo posto nelle classifiche internazionali sulla libertà d'informazione, ultima in Europa con la Turchia e a metà dei paesi africani. La via d'uscita a questo schifo non può essere il ritorno alla lottizzazione ben temperata della prima repubblica e anche dei governi ulivisti. Piuttosto serve una grande e moderna battaglia culturale per l'autonomia del servizio pubblico e la liberalizzazione della tv privata, per i diritti civili del cittadino-spettatore. Senza arretrare ogni volta davanti alla prima lacrima di Emilio Fede, cedere al ricatto fasullo dei posti di lavoro Mediaset. Gli unici posti di lavoro sacri negli ultimi due decenni.

È una battaglia poco avvertita dalla "gente"? Non è tanto vero e lo sarà ancora meno nei prossimi mesi. La strategia del governo è come sempre furbastra ma evidente. La paura di una batosta elettorale spinge a chiudere ogni spiraglio d'informazione, ad affollare i palinsesti di galoppini, a censurare ogni sussurro critico. È un potere sempre più prigioniero della sua fortezza virtuale, nell'illusione di cancellare la realtà con un colpo di propaganda. Il blackout sugli ostaggi chiesto da Berlusconi, fra gli applausi commossi della corte dei suoi dipendenti, è un notevole simbolo. In quale altro paese esiste un governo che, non sapendo come risolvere un problema, dopo aver sbagliato e parlato troppo, chiede semplicemente di cancellarlo dallo schermo?

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