Da La Stampa del 17/05/2004

PROMEMORIA

Il parlamento e quel che resta del question time

di Filippo Ceccarelli

Idiosincrasie presidenziali e acquiescenza parlamentare. La vicenda è, come si intende subito, molto semplice. Il regolamento della Camera (art. 135 bis) stabilisce che il presidente del Consiglio deve intervenire durante lo svolgimento delle interrogazioni a risposta immediata, il cosiddetto question time che si svolge ogni settimana nell'aula di Montecitorio. Ma dall’inizio della legislatura (primavera del 2001) Silvio Berlusconi non ha mai partecipato. Mai.

Per quattro volte in meno di un anno il presidente dell’Assemblea Pier Ferdinando Casini ha posto la questione in pubblico. Nel maggio del 2003 ha scritto una lettera esprimendo «viva preoccupazione». Un’altra lettera, sempre a Berlusconi, è partita nel settembre. Nel marzo di quest'anno - e tre - di fronte all’ennesima assenza (e all’ennesima protesta dell’opposizione) Casini si è quasi sfogato con l’uditorio: «Ho scritto lettere - ha detto -, ho parlato con Berlusconi, ho parlato con il ministro per i Rapporti con il Parlamento, ho investito la Giunta per il regolamento, ma di strumenti coercitivi per farlo venire qui non ne ho». Quindi niente.

L’altro giorno, sull’Iraq, l’impiccio si è ripresentato per la quarta volta. E di nuovo il presidente della Camera ha dovuto riconoscere che il governo non rispetta il regolamento, ma lui non ha «strumenti coercitivi per obbligarlo a venire in aula». In attesa di una quinta volta, e poi anche di una sesta, e quindi di una settima, converrà ammettere che la faccenda ha chiaramente assunto l’aspetto di una autentica tigna istituzionale senza via d'uscita.

Ora, il fastidio di Berlusconi per il Parlamento è ben noto. Il Cavaliere sostiene che lì si perde tempo; ogni tanto gli scappano frasi tipo «Sono stato costretto ad andare alla Camera»; una volta, alla richiesta di un dibattito sulla politica estera, ha risposto: «Ma che bisogno c’è? Basta leggere i giornali».

Sull’Iraq è del tutto plausibile che non sia andato per non associare la sua persona (la sua immagine) a situazioni (format) che la gente (il pubblico) sente come drammatiche e dolorose. Ma più in generale Berlusconi non va perché lì a Montecitorio non gioca in casa. Non è lui a fissare il frame, la cornice, le condizioni entro cui si svolge lo spettacolo, magari in diretta. E quelle attuali le considera a dir poco svantaggiose.

Per certi versi egli è condannato a guardare al question time con le logiche stringenti della comunicazione. Non gli piace la telecamera unica e frontale. Non gli piace l’inquadratura fissa né lo sfondo di legno marrone. Non gli piace che gli venga data ed eventualmente tolta la parola. Non gli piacciono le interruzioni, tanto più efficaci quanto meno prevedibili. Non gli piace di essere sovrastato di un buon metro e mezzo dal presidente dell’Assemblea, con tanto di simbolico campanello. Non gli piace insomma il Parlamento. E per la verità ha anche tentato di cambiarne la scenografia, ma invano.

Berlusconi non lo ammetterebbe mai, tanto meno in aula, ma la sua perenne assenza è fin troppo facile da capire. Quel che assai meno si comprende, e che davvero si stenta ad accettare in una Repubblica che resta pur sempre parlamentare, è come il Parlamento, appunto, possa continuare a mostrarsi non solo impotente, ma anche rassegnato dinanzi ai rifiuti e ai capricci strategici del governo.

Era fin troppo centrale, il Parlamento, negli Anni Settanta. Però oggi rischia di apparire del tutto fuori centro: nudo, vuoto e al tempo stesso compresso di orpelli cerimoniali e sempre più proiettato sull'intrattenimento culturale. Perciò organizza mostre, progetta musei, produce gadget, si fa la sua tv, ma non è in grado di convocare il premier. Pagati sempre meglio, intanto, gli onorevoli sfilano a cavallo, fanno gare ciclistiche, fondano club di tifosi e realizzano il sogno della beauty farm. Ma il vero potere è un altro. Quelli sono solo benefit: coriandoli inceneriti di un'antica, gloriosa e un tempo potente istituzione.

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