Da La Repubblica del 18/05/2004
Originale su http://www.repubblica.it/2004/e/sezioni/politica/iraqita6/statomilan/s...

COMMENTO

Berlusconi, il Milan e il senso dello Stato

di Francesco Merlo

Se i miliziani che con terribile violenza ci attaccano a Nassiriya domenica sera avessero visto il capo politico dell'odiato nemico intervenire ad una festa di pallone e stappare lo champagne, avrebbero avuto quanto meno una crisi di identità: quel che piace al tuo nemico dispiace a te, la sua gioia è il tuo dolore, la sua festa è il tuo funerale. Più chiaramente: com'è possibile che il nemico festeggi proprio quando i suoi uomini sono stati tanto duramente colpiti e un loro giovane campione sta morendo? Insomma neppure i terroristi di Al Qaeda, che pure celebrano la morte, riuscirebbero a capire come sia potuto accadere che proprio mentre si spegneva il giovane e ingenuo cuore di Matteo Vanzan, quello del suo vecchio e navigato presidente si accendeva, come ha scritto il Giornale, "dentro lo zucchero filato".

Berlusconi dunque ha spiazzato persino Al Qaeda. Se infatti l'Occidente è il luogo in cui una insulsa vittoria dicalcio può oscurare lo scontro di civiltà e la morte di un soldato, che bisogno c'è dell'uso integralista del Corano, dell'Islam, e di tutto il resto dell'armamentario? Se l'Occidente è questo, a che serve ammazzare un uomo morto, a che serve sgozzare cadaveri, a che serve sparare alla nuca agli ostaggi, a che servono mortai, lanciarazzi e bombe?

Ma l'Occidente non è Berlusconi e anche gli italiani hanno smesso di lodare come trovate antipolitiche le sue strampalaggini, come accadeva nei primi tempi, quando il presidente del Consiglio ci spiazzava tutti perché si autocelebrava o faceva le corna o mancava di rispetto a qualcuno. E tutti i giornali d'Italia, e noi con loro, scoprivamo nelle gaffes goliardiche, nelle maleducazioni più spudorate e negli spiazzamenti più insensati l'uso sapiente della demagogia, l'intelligenza diabolica del comunicatore, un rapporto consapevole con le cose.

Chissà se mai è stato cosi. Sicuramente non è più così. Ci voleva la guerra per farci capire che non c'è alcuna perfida intelligenza politica nel festeggiare il Milan mentre il nemico ci assedia, ed è strano che nessuno dei saggi e dotti consiglieri di Palazzo Chigi ricordi allo strampalato Berlusconi, che pure tanto ama le storielle, la vicenda vera e densa di significati di quel giovane della letteratura siciliana, che fu chiamato "Pippo il nano" da Giovanni Verga. Rintronato dalla guerra, più "Pippo il nano" si comportava in modo insensato e più appariva pericolosamente intelligente ai garibaldini di Nino Bixio, più li spiazzava con le sue trovate "scimunite" e più quelli gli attribuivano perfidie e sapienza, al punto che finì fucilato.

Letteratura, è vero. Ma quale intelligenza politica da grande comunicatore, quale sapiente demagogia può ancora nascondersi nella scelta di partecipare alla festa del Milan il giorno in cui qualsiasi altro capo di governo, non importa se di destra o di sinistra, si sarebbe rifugiato nel riserbo e nella compostezza? Senza ovviamente piangere in pubblico o indossare il lutto, qualsiasi altro premier avrebbe difeso, fosse pure per mero dovere, il dolore, l'autorità e la solennità delle istituzioni ben sapendo che domenica sera Nassiriya era un nodo che serrava la gola di ogni italiano informato e per bene.

Berlusconi invece ci spiazzava tutti, proprio come "Pippo il nano", quel siciliano di Verga che fu poi riscoperto da Sciascia. E festeggiava il Milan, felice ma imbarazzante per noi: "Non potevo non venire ma ho il cuore diviso"; "Mi sono informato ben quattro volte sulle condizioni di salute del soldato". "Gli altri hanno ferite lievi, lui non troppo lievi". Sono frasi da ultrà che riducono la guerra al calcio, i petardi di San Siro come le bombe di Nassiriya, sino al paradosso di scambiare la morte di un italiano in battaglia per una specie di fallo o di sgambetto sul campo di calcio: "Sono professionisti e sanno quello che fanno" dove il professionismo dei soldati è come quello di Kakà, il professionismo come "affar loro", terra di nessuno, la terra di nessun pudore.

Convinto che ogni critica sia un attacco e che la sua inadeguatezza sia un'invenzione dei nemici, Berlusconi non accetta appelli, sos, preghiere del mattino. È dunque inutile spiegargli che sottolineare questi suoi aspetti grotteschi non ci diverte più ma, al contrario, procura un profondo malessere a tutti, e soprattutto ai suoi elettori. La sua presunta sapidezza è ormai sale sulle piaghe del Paese. Noi italiani conviviamo infatti con morti e feriti, con sofferenze, crudeltà e paure terribili. Ebbene, in mezzo a questa poltiglia abbiamo bisogno di compostezza, di eleganza, di sobrietà.

Perciò gli "spiazzamenti" istituzionali non ci piacciono più, non siamo più disposti a dare senso politico alle scempiaggini, a perdonare le leggerezze irresponsabili, a mettere il calcio avanti ai morti. Purtroppo anche noi rischiamo di somigliare a quel Pippo il nano che più era insensato e più insospettiva Bixio. Sciascia spiegò molto bene che è sempre tragica la figura dello "scemo di guerra", dove la scemenza non è certo una menomazione cerebrale ma, appunto, la cifra interpretativa di una tragedia, un'ipotesi storiografica su un personaggio tipico dei piccoli paesi di provincia, prodotto di tutti i dopoguerra, perché è vero che la guerra rintrona ed è inutile nasconderlo. Ma Sciascia spiegava la tragedia di questa doppia figura letteraria aggiungendo che capita pure, e molto spesso, che uno scemo diventi un protagonista della guerra. Come si vede la cosa si imbroglia e Berlusconi qui non c'entra davvero più nulla. Pippo il nano, lo scemo di guerra, è solo letteratura, ma di quella inquietante.

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