Da La Stampa del 20/05/2004

Piace a tutti, liberal e conservatori: lo studioso americano analizza la storia di una formula

Società civile? Lo slogan è bello ma non vuole dire niente

di Benjamin R. Barber

Nello spazio di alcuni anni, a dir molto, in Occidente l’idea di società civile, da preoccupazione esoterica di storici intellettuali interessati a Locke o Hegel, si è trasformata in uno slogan chic malleabile sul piano ideologico quanto insulso sul piano sostanziale.

Infarcito con termini quali comunitarismo, repubblicanesimo civico, trust, liberi mercati e virtù civica, rappresenta una ricetta per un curioso lessico politico, più appetitosa per la sua novità che per il suo significato. La frase, mentre alcuni dibattono se sia bipartitica o trans-partitica, è stata colta al volo dai neo-democratici della Sinistra neo-liberale e dai repubblicani sostenitori dei «Family Values» della Destra e spesso asservita a finalità ideologiche assai più ristrette. E’ stata altresì usata sia da coloro che desiderano far riemergere i fondamenti di Stato liberale ispirati a Locke - la società civile come infrastruttura di una democrazia costituzionale (gli Stati Uniti oggi e al tempo del presidente Jackson e di Tocqueville, per esempio) - sia da coloro che desiderano motivare l’opposizione di dissenso ai governi autoritari: la società civile quale appello agli ideali anti-tirannici anche ove essi non abbiano fondamento alcuno nella società (la Germania dell’Est e altre democrazie di transizione negli Anni Ottanta e Novanta, ad esempio). Assai recentemente, assertori di una robusta cittadinanza in Paesi quali l’Italia, l’Austria e la Svizzera si sono altresì indirizzati verso l’idea di società civile per cercare di rinvigorire le tradizioni democratiche, che vanno affievolendosi.

Alla retorica della società civile è stata attribuita ulteriore influenza dalle controversie in merito al supposto declino della appartenenza sociale, della fiducia (trust) sociale e del capitale sociale in America - e per reazione anche in Europa - e questo è stato oggetto di discussione nell’opera di Robert Putnam, Francis Fukuyama, Amitai Etzioni, Michael Sandel, Bill Bennet, del senatore Dan Coats, Harry Boyte e del sottoscritto. Se i tradizionali criteri di valutazione dell’appartenenza sono in declino, il voto è in caduta libera e il trust sociale è in pericolo negli Stati Uniti, e se questi comportamenti sono in qualche modo costitutivi della società civile, il ristabilimento della società civile diviene la condicio sine qua non della sopravvivenza democratica.

Similarmente, se l’ideale di società civile fornisce un sistema di regole giustificatorio per coloro che si trovano in una fase di transizione da governi autocratici a governi democratici, comprendere il suo carattere quale forma di opposizione diventa la condicio sine qua non della democratizzazione. Ma, naturalmente, tali usi dipendono da una chiara comprensione di che cosa la società civile in verità significhi o dovrebbe significare, sia come prescrizione per le malattie della nostra democrazia sia come ricetta per la democratizzazione.

Dare una definizione della società civile è un compito concettuale particolarmente problematico. Non cercherò di fornire né un resoconto empirico né un resoconto genealogico risalendo ai suoi usi quale struttura primaria nella storia della filosofia politica occidentale a partire dall’Illuminismo, dal momento che questo non è un esercizio di storia intellettuale.

Fare a meno della storia non esonera, tuttavia, dalla responsabilità di operare distinzioni inerenti alle svariate circostanze politiche della nostra stessa epoca. Negli ultimi decenni la nozione di società civile si è diffusa in due ambienti politici assai differenziati. In Europa (soprattutto l’Europa Centrale) e nelle società di transizione non-europee tale nozione ha fatto la sua comparsa come un modo di sparlare di politica del dissenso, alludendo tanto a ciò che è assente nei regimi totalitari che essa prende in esame quanto a qualsivoglia elemento presente nelle insignificanti istituzioni dei dissidenti. D’altro canto, in democrazie affermate come gli Stati Uniti o i Paesi Bassi o l’Italia (dove il concetto è fondato su una esperienza pratica particolarmente ricca, che consente l’occasione di questa conferenza a Torino), l’idea di società civile è stata usata per indicare, rivolgendosi al passato, gli aspetti fondanti della democrazia: una infrastruttura che, sebbene in crisi, ha una storia e una legittimazione istituzionale.

Il primo uso (dell’idea di società civile) è un appello ad un ideale, ad una strategia volta a stabilire nuove istituzioni e spesso è connessa al radicalismo.

Il secondo è un appello a un retaggio sociologico, a una strategia per riportare in vita antiche istituzioni; questa strategia, anche quando vi fanno ricorso i liberali democratici, spesso è di stampo conservativo, guardando verso il passato, verso gli ideali più antichi per la riforma di pratiche attuali.

Persino nella sua versione radicale, tuttavia, l’appello alla società civile è spesso un appello al passato, alla memoria. Come scrive Stanislaw Baranczak: «Nell’Europa Orientale e Centrale ogni azione di resistenza antitotalitaria fu sempre identificata con il serbare o ravvivare la “memoria”. Il nostro compito era rettificare le distorsioni.

Essi (artisti ufficiali dell’apparato statale) erano nominati o semplicemente assunti dai regimi per aiutare ad invalidare la memoria; noi eravamo nominati da nessuno all’infuori di noi stessi per aiutare ad invalidare l’invalidazione».

Nell’illustrare i vari usi, io offrirò tre modelli distinti della società civile, che si possono rinvenire all’interno del suo retaggio istituzionale: quelli che chiamerò rispettivamente il modello liberale (alcuni direbbero «libertario»), il modello comunitario e il modello spiccatamente democratico della società civile.

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