Da La Repubblica del 20/05/2004

Prima condanna per Abu Ghraib

Un anno al "fotografo", in lacrime davanti ai giudici le torture

di Attilio Bolzoni

BAGDAD - Soldato Sivits, come si dichiara di fronte all´accusa di maltrattamento? «Colpevole, vostro onore». E di fronte all´accusa di cospirazione? «Colpevole». E a quella di negligenza? «Colpevole». Tre volte colpevole e la voce del soldato scelto Jeremy Sivits comincia a tremare, poi diventa un singhiozzo. E il ragazzo della Pennsylvania che è grande e grosso, infagottato nella sua mimetica, la testa rasata come usano i giovani militari americani, abbassa per un attimo lo sguardo e poi esplode in un pianto liberatorio. Versa lacrime davanti alla corte marziale l´imputato che ha oggi addosso gli occhi del mondo. E chiede perdono: «Al popolo iracheno che ero venuto qui per aiutare, all´esercito degli Stati Uniti, ai miei giudici, ai detenuti che erano in quella prigione e alla mia famiglia».

Primo processo e primo militare Usa condannato. Un anno di reclusione. L´hanno già caricato su un aereo, è in viaggio, destinazione una prigione americana. Come annunciato, giustizia-lampo a Bagdad per la vergogna delle torture di Abu Ghraib.

Sono bastate neanche quattro ore per radiare dall´esercito degli Stati Uniti il meccanico venuto dal villaggio di Yndman, l´uomo che ha fotografato le sevizie dei suoi compagni nelle segrete del carcere iracheno. «L´ho fatto solo perché me lo chiesero», ha bisbigliato a un certo punto guardandosi intorno smarrito. Dibattimento cominciato alle 13 e finito alle 16,30 con il pianto di Jeremy Sivits registrato sui monitor e diffuso alla stampa internazionale, accuse e difesa già d´accordo per il patteggiamento, nessun colpo di scena se non quelle lacrime «in diretta» al momento della sentenza. Dovrà scontare dodici mesi di pena ed è stato degradato da soldato scelto al rango di soldato semplice, dovrà pagare una multa di qualche dollaro ma verrà congedato per sempre «per cattiva condotta». Gli hanno risparmiato solo la sospensione della paga.

Si è chiuso così a Bagdad un processo che era già stato scritto, dove era tutto scontato. Scenografia molto "americana", atmosfera accuratamente preparata ad uso e consumo di almeno duecento giornalisti, formalità procedurali più lunghe della requisitoria di due capitani, dell´arringa di un altro capitano e della testimonianza di quattro guardie carcerarie. Scontatissima anche la dichiarazione alla corte marziale dell´imputato: ha scaricato ogni responsabilità delle torture e degli abusi sessuali sul caporale Charles Graner e sui sergenti Ivan Frederick e Javal Davis (che ieri sono comparsi in aula in un altro dibattimento preliminare e saranno processati il 21 giugno prossimo), ha sostenuto che lui non ha inflitto direttamente umiliazione ai detenuti, si è impegnato con la giustizia americana - firmando un documento di otto pagine elaborato insieme da accusa e difesa - a non ritrattare le sue denuncie contro gli altri soldati incriminati. Solo in un momento, il soldato Jeremy Sivits è sembrato imbarazzato. Quando il giudice James Pohl, un colonnello avvolto nella toga nera l´ha incalzato con qualche domanda sui suoi superiori ad Abu Ghraib. Prima Sivits ha risposto con un paio di «non ricordo», poi ha vagamente parlato «di uomini dell´Intelligence militare che chiedevano di «preparare» i detenuti agli interrogatori». Alla fine, il soldato scelto Sivits si è rivelato per quello che nella sostanza è: più un «pentito» che un imputato.

E´ andato così il processo che prometteva giustizia agli orrori del carcere di Bagdad, che è stato presentato dal comando Usa come «esemplare» messaggio per tutti i soldati americani. Accusa e difesa non hanno combattuto nella sala conferenze trasformata in corte marziale, solo un gioco delle parti. Il capitano John MacCabe nella sua requisitoria: «L´esercito non può tollerare questi comportamenti». Il capitano Stanley Martin, difensore di Sivits: «L´imputato è solo un uomo che una notte ha commesso un errore».

E poi il ragazzone della Pennsylvania, che fino a quel momento era ripreso da una telecamera interna solo di spalle, all´improvviso si è alzato e si è accasciato sulla sedia dei testimoni. Forse è stata quella, la vera condanna per il soldato scelto Jeremy Sivits. Costretto a parlare. A spiegare. La sua vita: «Sono un meccanico, al mio villaggio faccio anche l´allenatore di baseball per una squadra di ragazzini, mio nonno è stato volontario in Vietnam, io nel 2001 sono andato in Bosnia». Il giorno che arrivò ad Abu Ghraib: «Era un inferno, ci sparavano addosso con i mortai e con i lanciagranate, ho visto tanti compagni in una pozza di sangue». Il suo tormento: «Non mi mandate via dall´esercito, non mi lasciate andare, io amo questa bandiera, la bandiera americana». Le sue ultime parole prima della condanna: «Non ero io a fare quelle cose...».

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