Da La Stampa del 14/05/2004

Democrazia e verità

di Michele Ainis

La democrazia, ha scritto una volta Bobbio, è «il potere del pubblico in pubblico». In altre parole, ogni sistema democratico è (dovrebbe essere) una casa di vetro, un luogo trasparente dove non vi sia spazio per segreti, menzogne, dissimulazioni. Ma è davvero questa la realtà dei nostri rapporti politici e civili? Davvero si può dire che la verità costituisca la virtù precipua delle democrazie, dopo il cono d'ombra calato sugli oltre 600 prigionieri talebani a Guantanamo, dopo le bugie di Bush e Blair a proposito degli arsenali di Saddam, dopo le menzogne di Aznar all'indomani delle bombe dell'11 marzo, dopo le torture praticate in gran segreto nel carcere di Abu Ghraib? Togliamoci la maschera: non è più così, se mai lo è stato prima. Non è affatto vero che la democrazia è la patria del vero. E non è vero per almeno quattro ragioni, che introducono altrettanti punti di frattura tra verità e democrazia.

Primo: anche in Occidente s'alleva la ragion di Stato. Dovremmo saperlo bene noi italiani, che con Machiavelli le abbiamo dato i natali. E la ragion di Stato significa che le esigenze di sicurezza permettono di violare ogni norma etica o giuridica. Permettono dunque, e per esempio, d'apporre il segreto di Stato, che infatti è consentito ovunque dalle leggi. Permettono - e anzi impongono - ai nostri governanti di mentire, tanto più in frangenti bellici, quando la verità diventa un lusso, quando si trasforma da regola in eccezione.

Secondo: in democrazia si contano le teste, anziché tagliarle. In democrazia dunque si vota, ma è ben difficile persuadere gli elettori mettendogli davanti al naso un quadro fosco e crudo, quale è assai spesso il quadro del mondo in cui viviamo. Come diceva Bismarck, «Non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia».

Terzo: la conoscenza del vero può generare angoscia, paura, senso di pericolo. Può fomentare le nostre insicurezze collettive, gonfiarle a dismisura. E l'insicurezza è il primo alimento dell'autoritarismo, dato che tutti noi - se siamo spaventati - cerchiamo d'istinto chi ci tranquillizzi, un padre con la mascella quadra e dai metodi alquanto sbrigativi. Ecco perché i sistemi democratici, per scongiurare derive autoritarie, devono mostrarsi quanto più possibile ottimisti, rassicuranti, fiduciosi sul futuro. Anche a costo di mentire.

Quarto: come diceva Kelsen, la verità unica e assoluta non ha cittadinanza nei regimi democratici. Questi ultimi infatti si distinguono dalle dittature perché ammettono ogni verità possibile, perché sono in radice pluralisti, sacerdoti non di un solo Dio, ma di tutti gli dei. Il simbolo - tragico - delle democrazie è nella figura di Pilato, rappresentante d'una civiltà vecchia e perciò divenuta scettica, che dinanzi alla verità incarnata da Gesù gli chiede: «Che cos'è mai la verità?»; e dopo lo sottopone al giudizio della folla. Ma non c'è verità nella folla democratica che manda a morte Cristo, e non può dunque esservene in chi la rappresenta nei palazzi del potere.

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