Da Corriere della Sera del 26/05/2004

IL CASO

Nove processi rinviati Ma sette erano inutili...

di Giovanni Bianconi

ROMA - Gli avvocati sono schierati in massa, venti e più difensori per altrettanti imputati in attesa del giudizio definitivo della Cassazione. Al «palazzaccio» di piazza Cavour, secondo piano, prima sezione penale della suprema corte, si lavora anche nel giorno di sciopero dei magistrati. E gli avvocati aspettano. Chi presiede il collegio? «Sossi purtroppo», risponde un difensore. Purtroppo perché non sciopera e quindi niente rinvio? «No, purtroppo perché è Sossi», ribatte il difensore memore del soprannome che quel giudice si porta addosso dai tempi in cui fu rapito dalle Brigate rosse, trent’anni fa: «dottor Manette». In ogni caso, l’udienza per il suo cliente si farà: è detenuto, e il codice di autoregolamentazione prevede lo svolgimento del processo anche nel giorno dell’astensione dal lavoro. Dei cinque magistrati che compongono il collegio, tre aderiscono alla protesta e due no. Anche il procuratore generale chiamato a rappresentare l’accusa, Guglielmo Passacantando, sciopera ma è regolarmente seduto al suo posto.

Accanto al presidente Mario Sossi, uomo notoriamente di destra e che saluta la riforma governativa dell’ordinamento giudiziario come il «coraggioso tentativo di muovere qualcosa», siede un giudice con idee notoriamente di sinistra, Livio Pepino, presidente di Magistratura democratica. Lui, naturalmente, sciopera come l’ottanta e più per cento delle toghe d’Italia. Però è costretto a lavorare. Ma lo stipendio di oggi ve lo pagano oppure no? «Non lo so, e sinceramente non è questo che m’interessa». Che cosa, invece? «Ricordare che se alla vigilia della nostra protesta il presidente del Senato dice che il pericolo per l’indipendenza viene da una parte dei magistrati, e il vice-presidente del Consiglio dice che alcune inchieste gridano vendetta, lo scopo della riforma è evidente: avere una magistratura diversa e meno indipendente».

S’è fatta l’ora dell’udienza. Sossi, Pepino, e gli altri giudici compaiono con la toga sulle spalle, la stoffa nera che copre tutti gli altri colori (anche delle idee politiche) di chi la indossa per amministrare giustizia. Destra o sinistra, sciopero o non sciopero, adesso sono uguali anche Sossi e Pepino.

Oggi però di giustizia ne amministreranno solo un po’, quella dei «casi urgenti»: imputati detenuti o reati a rischio di prescrizione. Le altre cause saranno rinviate. I giudici scorrono l’elenco: in udienza pubblica sono previsti undici processi, solo in due casi ci sono detenuti. Un omicidio del 2001 (un unico accusato) e una serie di rapine con omicidio, tentati omicidi e altri reati, compreso l’assalto del ’99 a un furgone portavalori in via Imbonati a Milano, in cui fu ucciso un agente. Gli imputati detenuti e «ricorrenti» sono 14.

I processi da farsi finiscono qui, gli altri nove saltano perché gli imputati sono liberi e la prescrizione non è vicina. «Tenuto conto dello sciopero cui aderiscono i giudici Silvestri, Granero e Pepino e del codice di autoregolamentazione, si rinvia a nuovo ruolo», fa mettere a verbale il presidente Sossi. Ma c’è un particolare che emerge dalla lista delle cause saltate: per due di esse, effettivamente, la prescrizione è lontana, mentre per le altre sette è già scaduta. Proprio così: dei nove processi su undici rinviati per la protesta indetta dai magistrati contro la riforma dell’ordinamento giudiziario disegnata dal governo Berlusconi e dalla sua maggioranza, sette sono prescritti. Rinviati, ma già morti. Se si fossero celebrati (e quando lo saranno inevitabilmente avverrà) la Corte suprema di Cassazione non avrebbe potuto fare altro che dichiarare «il reato estinto per intervenuta prescrizione». Significa che l’imputato non è più perseguibile, colpevole o innocente che sia, perché la giustizia è arrivata troppo tardi; forse lui ha vinto, ma lo Stato ha sicuramente perso.

Anche oggi, in una delle poche aule di giustizia in cui si lavora, balza agli occhi il vero male che affligge i tribunali d’Italia: la lentezza dei processi. E davanti a questa realtà sembra avere buon gioco chi dice che forse è su questo terreno che bisognerebbe intervenire, prima che sulle carriere dei giudici, i concorsi o la gerarchizzazione degli uffici. Il giudice Pepino, per esempio: «E’ evidente che ci sono gravi problemi di efficienza sui quali il ministro è in forte ritardo. Lui parla di informatizzazione, ma solo ora comincia ad esserci una giurisprudenza che dà valore legale ai fax...».

Sossi la pensa in maniera diversa: «Questa riforma serve a restringere il potere del Csm, perciò sono d’accordo. E l’alta adesione allo sciopero si spiega perché i magistrati sono una corporazione che non vuole perdere i suoi privilegi». Col tono sommesso di chi indossa la toga da 35 anni nel più assoluto anonimato, il pm Passacantando che ha appena certificato la resa dello Stato elencando i processi prescritti dissente: «Una riforma del genere non credo debba passare attraverso l’imposizione della politica sulla magistratura, senza un confronto serio e approfondito. Certo che anche sui nostri avanzamenti di carriera ci sono modifiche da introdurre, ma la massa di concorsi prevista non ha alcun senso e non aumenta per nulla l’efficienza del sistema, anzi. Sulle cose da fare bisognerebbe discutere e trovare le soluzioni migliore, non imporre scelte che portano inevitabilmente al muro contro muro».

L’udienza va avanti con i processi obbligati. Pepino svolge la relazione sull’omicidio di tre anni fa, un altro giudice quella sui fatti di via Imbonati e dintorni. Parlano il pm e gli avvocati, fino a pomeriggio inoltrato. La corte si ritira per decidere queste e altre cause senza discussione, in tutto una quarantina, per lo più detenuti che ricorrono contro il rigetto di permessi o benefici.

Anche nell’aula di fronte, quinta sezione penale, si è lavorato. I giudici (tra cui uno che aderiva alla protesta) hanno esaminato le condanne all’ergastolo di alcuni brigatisti rossi responsabili di una rapina con doppio omicidio di poliziotti del febbraio 1987. Ricorso rigettato, condanne definitive. A diciassette anni dal fatto, nel giorno dello sciopero.

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