Da Corriere della Sera del 27/05/2004

La Procura di Palermo chiede l’archiviazione: non possiamo provare che i carabinieri volessero aiutare Cosa Nostra. E la mancata sorveglianza della casa del padrino resta un mistero

«Covo di Riina, bugie inspiegabili»

I pm: atteggiamento non veritiero o quantomeno reticente di Mori e di «Ultimo»

di Giovanni Bianconi

ROMA - Il mistero che dura da 11 anni riprende la strada dell’archivio, ma senza soluzione. Piuttosto con ulteriori dubbi e «gravi perplessità», accusa il pubblico ministero. La storia della mancata perquisizione e della sorveglianza sospesa al covo di Totò Riina subito dopo la sua cattura, lasciato sguarnito dai carabinieri del Ros a insaputa dei magistrati palermitani, resta un groviglio di «inammissibili contraddizioni logiche», fatti che «non trovano alcuna plausibile spiegazione», «inspiegabili condotte». Di fronte all’impossibilità di provare che i responsabili dell’operazione avessero non solo la consapevolezza, ma anche la volontà di «agevolare obiettivamente gli uomini di Cosa Nostra», la Procura di Palermo ha nuovamente chiesto l’archiviazione dell’inchiesta. Quelli dei due carabinieri indagati per favoreggiamento sono nomi importanti nella storia della lotta alla mafia: il generale Mario Mori - ex capo del Ros, oggi prefetto e direttore del Sisde - e l’ex capitano Ultimo, oggi tenente colonnello in servizio al Nucleo operativo ecologico dell’Arma, l’uomo che materialmente catturò Riina la mattina del 15 gennaio 1993 in una strada di Palermo. Il capo della mafia, latitante da trent’anni, da pochi minuti era uscito dalla sua abitazione, in un residence di via Bernini. Ma la casa non fu perquisita; secondo gli accordi presi con la Procura ricostruiti dall’indagine, i carabinieri del Ros dovevano sorvegliarla per intercettare eventuali «uomini d’onore» che fossero andati a prelevare la famiglia di Riina. Due settimane dopo, però, la stessa Procura scoprì che quella «sorveglianza a distanza» non c’era mai stata.

Solo «un grosso equivoco nato dalla concitazione di quei giorni», ha spiegato Ultimo ai magistrati; «tutt’al più una dimenticanza, non certo un’omissione dolosa da parte nostra», ha confermato Mori. Giustificazioni che il pm di Palermo Antonio Ingroia definisce «poco convincenti». Ma nelle 15 pagine inviate al giudice delle indagini preliminari (che nel 2002 aveva respinto una prima richiesta di archiviazione, ordinando altri accertamenti) e consegnate dal procuratore Grasso alla commissione parlamentare antimafia, c’è di più. Per esempio, scrive il pm, «elementi indiziari più che sufficienti per ritenere provato che gli ufficiali del Ros e segnatamente il tenente colonnello, con l’avallo del generale Mori, lasciarono intenzionalmente credere ai magistrati e agli altri ufficiali dell’Arma una circostanza non rispondente al vero e cioè che l’attività di osservazione (del covo, ndr ) sarebbe proseguita senza soluzione di continuità fin tanto che la perquisizione non sarebbe stata eseguita».

Una bugia intenzionale, affermano gli inquirenti, intorno alla quale ruota l’intera vicenda che in passato ha prodotto duri contrasti tra il Ros e la Procura palermitana. Alla base c’è un appunto dell’allora procuratore aggiunto Aliquò, che fissando i fatti del 15 gennaio ’93 scrisse: «Durante il pranzo, Ultimo (...) dice che contava di vedere chi sarebbe venuto a prelevare i familiari di Riina. Intervento di Mori. (...) Garanzia di controllo assoluto e costante». Parole piuttosto precise, che Ultimo ha di fatto smentito nel suo interrogatorio: «Io non specificai se l’attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi... Io non volevo fare sorveglianza... Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l’abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l’abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli».

Per il pm c’è una «insanabile contraddizione» tra questa e altre affermazioni di Ultimo. Così come «la brillante operazione» dell’arresto del superlatitante lontano dal covo, «di cui non può che darsi merito ai carabinieri», rende «ancor più incomprensibili le scelte adottate dai vertici del Ros nelle ore immediatamente successive». Anche perché in quelle ore e in quei giorni successivi, altri mafiosi andarono effettivamente a prendere al moglie e i figli di Riina, svuotarono l’appartamento (cassaforte compresa) e tinteggiarono le pareti per evitare che rimanessero impronte digitali. L’hanno raccontato alcuni pentiti che parteciparono alla missione e questo fa scrivere al pm Ingroia che oltre al rinvio dell’irruzione, «fu soprattutto la sospensione di ogni attività di osservazione a determinare un’obiettiva agevolazione di Cosa Nostra, consentendo a quest’ultima di trarre il massimo vantaggio possibile dalla mancata perquisizione del covo».

Secondo il magistrato restano «gravi perplessità in ordine all’attendibilità della ricostruzione dei fatti fornita a distanza di tanti anni dai vertici del Ros», anche per via di un altro appunto del procuratore aggiunto Aliquò. Riferendosi a una riunione svoltasi il 27 gennaio ’93, dodici giorni dopo l’arresto di Riina, il magistrato scrisse: «Caselli sollecita ancora la perquisizione ma Mori sembra non avere urgenza e dice che l’osservazione del complesso di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione». Ribatte Mori interrogato dal pm: «Non ho ricordo di quella riunione... Escludo tuttavia di aver fatto riferimento all’attività di osservazione sul complesso di via Bernini come causa di stress».

L’ultimo pentito di Cosa Nostra considerato importante e attendibile dai magistrati antimafia, Nino Giuffrè, ha raccontato di aver parlato con Provenzano e altri boss (Spera, Greco e Aglieri) della «possibilità concessa a Riina di "ripulire tutto"» nella base della sua latitanza: «Ritengo che il discorso sia stato "pilotato a tavolino", che Riina tenesse a casa le "carte" più compromettenti, quelle sui rapporti con persone "terze" rispetto a Cosa Nostra. Questi erano fatti, non chiacchiere». Il pentito allarga i suoi sospetti all’intera operazione: «Lo scopo della cattura era molteplice: da una parte Riina era diventato "ingombrante" e dunque sacrificarlo poteva servire per salvare Cosa Nostra; dall’altra Bagarella si impossessa delle carte, penso tramite la sorella, moglie del Riina, Ninetta Bagarella, per neutralizzare i danni che poteva fare a personalità esterne vicine a Cosa Nostra... Ritengo che adesso le "carte" le abbia Matteo Messina Denaro, che è il "gioiello" di Totò Riina».

Le dichiarazioni di Giuffrè, scrive Ingroia, sono «frutto di una ricostruzione certamente "autorevole", ma insufficiente per trarne definitive conclusioni». Tuttavia la Procura mantiene le perplessità su comportamenti e decisioni di due «ufficiali di tale esperienza e conoscenza del fenomeno mafioso» come Mori e Ultimo, le cui dichiarazioni «appaiono non veritiere, o quantomeno reticenti, anche nell’ambito del presente procedimento». Ma la prova del dolo non c’è, sostiene il pm, e non resta che archiviare: il destino dell’inchiesta e del «giallo» torna nelle mani del giudice.

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