Da La Stampa del 11/06/2004
Chi sono e cosa pensano i giovani nati e cresciuti in Europa: un convegno del Centro Studi Edoardo Agnelli
Se l’Islam dei figli non è più quello dei padri
di Renato Rizzo
TORINO - Può bastare una consonante per trasformare un concetto nel suo opposto e, addirittura, per cambiare la prospettiva della storia: «haram» o «halam», «proibito» o «lecito»? I giovani musulmani che sono nati e vivono in Europa, respirandone la cultura, si trovano sempre più di frequente davanti ad una constatazione inquietante: ciò che è giudicato «haram» dal padre o dall’imam diventa «halam» per loro che hanno in media 20-25 anni e pure, spesso, si considerano buoni seguaci di Allah. Emerge da questo dilemma lo specchio d’una identità religiosa che sovente contrappone tradizione e modernità: non un Islam meticcio, ma che, come sostengono gli esperti riuniti oggi al Centro di Studi religiosi comparati Edoardo Agnelli, «s’articola in termini personali e di relazione spesso contraddittori con le pratiche dei più anziani».
Al punto che parole come «pudore», «divertimento», «promiscuità» diventano vere barriere generazionali. Abdallah Kabakebbji, studente del quarto anno di Odontoiatria a Milano e «delegato al dialogo» dell’appena nata Associazione Giovani Musulmani d’Italia (Gmi) parla di «necessità di contestualizzare l’Islam»: «Quelli come noi, cresciuti e andati a scuola qui, cercano riferimenti, diciamo, più occidentali.
Perché, a differenza delle organizzazioni “adulte”, la cui base è costituita essenzialmente da immigrati, non ci sentiamo “aggiunti”, ma parte integrante del Paese». Non ha remore, Abdallah, nel discutere di sessi e di rapporti relazionali. «La tradizione induce maschi e femmine a comportamenti separati, ma per noi è naturale parlare con le ragazze. Anzi le giovani donne sono la parte più cospicua dell’associazione».
C’è un termine che sembra banale e, invece, può diventare simbolico: discoteca. Come vive o non vive questo divertimento così occidentale un giovane musulmano? «Non diamo pareri giuridici. Rispetto alla tradizione, comunque, è già un passo avanti il fatto che ne discutiamo. Senza colpevolizzare chi, tra noi, le frequenta». E il problema del velo per le donne? «E’ scontato che rappresenti un obbligo per chi è nato e cresciuto in uno Stato musulmano. Ma nessuno di noi chiederà mai a un’amica d’indossarlo, se lei non vuole.
L’Islam è una religione senza tramiti e non si fa diventare qualcuno un buon musulmano obbligandolo a comportarsi in un certo modo».
Ecco il «filo rosso» che lega questa complessità di rapporti fra tradizione e nuovo. Andrea Pacini, direttore del Centro e promotore del convegno, l’identifica «nel progressivo distacco dall’Islam etnico - quello che, cioè, cerca di riprodurre se stesso nel paese d’emigrazione secondo il modello del paese d’origine - e nell’affermarsi della logica individuale nei confronti della dimensione religiosa». E’ un processo di sfaldamento che, secondo gli studiosi, può portare ad una riforma della religione «in senso cosmopolita o liberale», una sorta d’ibridazione con la cultura europea che, come nota Pacini, «ha molto successo tra i giovani e si organizza in associazioni spesso di carattere umanitario contro la marginalità sociale». Ma che rischia anche il veleno dell’integralismo come scelta radicale.
Domandiamo a Kabakebbji: in che modo vivono i giovani musulmani la paura del terrorismo che, a volte, porta a considerare tutti i seguaci dell’Islam come fiancheggiatori di Bin Laden? «Ci si dimentica che l’Islam è una religione e non una specie di maxipartito. Proviamo ribrezzo per gli attentati, non dimenticando che hanno colpito soprattutto i musulmani sia con le uccisioni sia con la gratuita criminalizzazione: si veda l’Algeria, l’Egitto, la Turchia».
Alcune cifre per valutare il pianeta Islam in Italia: 800 mila adulti e 300 mila «under 30» dei quali la metà è nata e ha studiato qui. Cifre modeste rispetto a quelle di Paesi come Germania o Francia o Regno Unito. Ma gli esperti invitano a osservare con sguardo presbite la nostra realtà, facendo tesoro degli esempi riusciti - e anche dei fallimenti di questa sorta d’euro-islamismo - in altre parti del Continente. Il traguardo, insomma, è favorire «il tono dialogico e di partecipazione sociale» anche attraverso una scuola multiculturale («Non quelle coraniche che, a volte, sono brodo di coltura per le opzioni estreme e estremiste»), apertura al mondo del sindacato e dell’associazionismo. Avendo chiara una regola: l’integrazione non si misura con l’abbandono della fede o della pratica religiosa che, anzi, dev’essere consentita «compatibilmente con gli ordinamenti giuridici e sociali, magari dopo aver favorito la formazione di imam in Europa».
Ma c’è chi non gradisce canali per la propria spiritualità. Annalisa Frisina dell’Ateneo di Padova ricorda la provocazione d’un aderente alla Gmi: «Per me la sfida è essere religioso senza recitare nemmeno un versetto del Corano». «Haram»? «Halam»? «Lecito»? «Proibito»?
Al punto che parole come «pudore», «divertimento», «promiscuità» diventano vere barriere generazionali. Abdallah Kabakebbji, studente del quarto anno di Odontoiatria a Milano e «delegato al dialogo» dell’appena nata Associazione Giovani Musulmani d’Italia (Gmi) parla di «necessità di contestualizzare l’Islam»: «Quelli come noi, cresciuti e andati a scuola qui, cercano riferimenti, diciamo, più occidentali.
Perché, a differenza delle organizzazioni “adulte”, la cui base è costituita essenzialmente da immigrati, non ci sentiamo “aggiunti”, ma parte integrante del Paese». Non ha remore, Abdallah, nel discutere di sessi e di rapporti relazionali. «La tradizione induce maschi e femmine a comportamenti separati, ma per noi è naturale parlare con le ragazze. Anzi le giovani donne sono la parte più cospicua dell’associazione».
C’è un termine che sembra banale e, invece, può diventare simbolico: discoteca. Come vive o non vive questo divertimento così occidentale un giovane musulmano? «Non diamo pareri giuridici. Rispetto alla tradizione, comunque, è già un passo avanti il fatto che ne discutiamo. Senza colpevolizzare chi, tra noi, le frequenta». E il problema del velo per le donne? «E’ scontato che rappresenti un obbligo per chi è nato e cresciuto in uno Stato musulmano. Ma nessuno di noi chiederà mai a un’amica d’indossarlo, se lei non vuole.
L’Islam è una religione senza tramiti e non si fa diventare qualcuno un buon musulmano obbligandolo a comportarsi in un certo modo».
Ecco il «filo rosso» che lega questa complessità di rapporti fra tradizione e nuovo. Andrea Pacini, direttore del Centro e promotore del convegno, l’identifica «nel progressivo distacco dall’Islam etnico - quello che, cioè, cerca di riprodurre se stesso nel paese d’emigrazione secondo il modello del paese d’origine - e nell’affermarsi della logica individuale nei confronti della dimensione religiosa». E’ un processo di sfaldamento che, secondo gli studiosi, può portare ad una riforma della religione «in senso cosmopolita o liberale», una sorta d’ibridazione con la cultura europea che, come nota Pacini, «ha molto successo tra i giovani e si organizza in associazioni spesso di carattere umanitario contro la marginalità sociale». Ma che rischia anche il veleno dell’integralismo come scelta radicale.
Domandiamo a Kabakebbji: in che modo vivono i giovani musulmani la paura del terrorismo che, a volte, porta a considerare tutti i seguaci dell’Islam come fiancheggiatori di Bin Laden? «Ci si dimentica che l’Islam è una religione e non una specie di maxipartito. Proviamo ribrezzo per gli attentati, non dimenticando che hanno colpito soprattutto i musulmani sia con le uccisioni sia con la gratuita criminalizzazione: si veda l’Algeria, l’Egitto, la Turchia».
Alcune cifre per valutare il pianeta Islam in Italia: 800 mila adulti e 300 mila «under 30» dei quali la metà è nata e ha studiato qui. Cifre modeste rispetto a quelle di Paesi come Germania o Francia o Regno Unito. Ma gli esperti invitano a osservare con sguardo presbite la nostra realtà, facendo tesoro degli esempi riusciti - e anche dei fallimenti di questa sorta d’euro-islamismo - in altre parti del Continente. Il traguardo, insomma, è favorire «il tono dialogico e di partecipazione sociale» anche attraverso una scuola multiculturale («Non quelle coraniche che, a volte, sono brodo di coltura per le opzioni estreme e estremiste»), apertura al mondo del sindacato e dell’associazionismo. Avendo chiara una regola: l’integrazione non si misura con l’abbandono della fede o della pratica religiosa che, anzi, dev’essere consentita «compatibilmente con gli ordinamenti giuridici e sociali, magari dopo aver favorito la formazione di imam in Europa».
Ma c’è chi non gradisce canali per la propria spiritualità. Annalisa Frisina dell’Ateneo di Padova ricorda la provocazione d’un aderente alla Gmi: «Per me la sfida è essere religioso senza recitare nemmeno un versetto del Corano». «Haram»? «Halam»? «Lecito»? «Proibito»?
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