Da Corriere della Sera del 12/06/2004

«Dietro la sconfitta non solo l’Iraq, anche le tasse»

di Alessio Altichieri

LONDRA - Dopo Aznar, Blair. La guerra in Iraq non porta fortuna ai governanti. Ne parliamo con John Lloyd, 58 anni, scozzese, direttore del Financial Times Magazine e autore di un libro appena uscito, «What the Media do to Politics», che critica il ruolo della stampa (e della Bbc ) nei confronti della politica, in particolare del premier Tony Blair.

E’ la maledizione di Saddam, come quella di Tutankamen?
«Il ministro degli Interni, David Blunkett, ha parlato di un risultato mortificante. E certo, almeno per metà, è dovuto all’Iraq. Ma ci sono altri fattori di politica interna. Uno per esempio è l’aumento della tassa municipale. Tutti i comuni che hanno aumentato le tasse, laburisti, conservatori o liberaldemocratici, sono stati puniti dagli elettori. Poi ci sono gli aumenti delle tasse universitarie, e anche il prezzo della benzina, che è cresciuto fino a pochi giorni fa. L’Iraq ha pesato, ma non al cento per cento, secondo i sondaggi».

Infatti la Bbc spiega che Blair riscuote consensi per l’economia, la sanità e i servizi pubblici. Ma poi l’Iraq...
«Sì, è così. Anche se qualcuno dice che questo risultato non è peggiore di quello di quattro anni fa, quando il leader conservatore era William Hague. Perciò non è troppo grave».

Eppure la situazione in Iraq è migliorata, ultimamente.
«Sì, ma ancora la gente non se n’è accorta. Se il nuovo governo di Bagdad prende il controllo del Paese, allora conterà. Ma non ha potuto avere effetto su queste elezioni».

Non sono risultati, questi, di buon auspicio. Dovrebbe prendere paura, per esempio, il presidente Bush?
«In un certo senso sì, per lui il fattore iracheno potrebbe essere molto più importante, perché in Iraq ci sono più truppe americane, più morti americani. A meno che non cominci davvero un periodo di boom economico, credo che Bush debba davvero spaventarsi. E anche Berlusconi, chiaramente».

Ma alle elezioni che interessano a Berlusconi, quelle del 2006, mancano ancora due anni.
«Ma prima vengono le elezioni europee...».

Europa, appunto. Se tutto va bene, Blair fra pochi giorni dovrà firmare la costituzione europea. Ma è una carta destinata a non diventare mai realtà: ha promesso un referendum che, con la nascita di un partito ancora più euroscettico dei conservatori, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip), gli sarà impossibile vincere.
«Non sono sicuro: Blair, come dice in pubblico e in privato, crede di poter vincere il referendum. E poi, cinicamente, lo ha deciso per togliere ai conservatori uno dei maggiori argomenti. Tutti gli uomini politici guardano a breve termine, badano a vincere la prossima elezione, non oltre».

Adesso, dopo questa sconfitta elettorale, comincerà nel Labour Party la solita campagna, con voci dai corridoi di Whitehall che parlano di un Blair dimissionario, che lascia il posto a Gordon Brown, il cancelliere dello Scacchiere?
«Può darsi. Ma la soluzione migliore, che va bene al partito e va bene a Brown, sarebbe quella di un Blair primo ministro che vince le prossime elezioni e poi, magari un anno dopo, consegna il governo a Brown».

Lunga vita al premier Blair, allora, almeno fino al 2007?
«Sono convinto che Blair si ritirerà quando vuole lui. E’ uno dei pochi politici che se lo può permettere, a differenza di Margaret Thatcher o di tanti altri. E per lui il momento buono verrà dopo le prossime elezioni, dopo dieci anni al potere».

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