Da Corriere della Sera del 13/06/2004

IL PERSONAGGIO / Abdel Amir racconta l’intervento della Commissione Ue nella vicenda: l’aiuto richiesto dai vescovi caldei

L’ex baathista in esilio: ad Amman con un funzionario di Bruxelles

di Massimo Nava

PARIGI - «Nessun blitz militare, nessun riscatto, nessun ruolo importante del governo italiano». Qualche merito ce l’avrebbero invece Romano Prodi e naturalmente lui, Abdel Amir al Rekaby, l’uomo politico iracheno in esilio che, a suo dire, avrebbe stabilito il contatto decisivo con i rapitori degli ostaggi italiani. La sua versione si aggiunge alle troppe che circolano in questi giorni, ai tanti misteri e alla conquista del merito: cosa che vale per i sondaggi elettorali e anche per il complicato scenario politico a Bagdad. Prodi, come noto, ha smentito queste circostanze.

Abdel Amir al Rekaby è stato fra i sostenitori del Baath, il partito di Saddam, ma dopo la rottura con il Raís, all’inizio degli anni Ottanta, vive in esilio in Europa. E’ tornato per qualche tempo in Iraq prima della guerra, quando il regime cercava di recuperare alleati e consenso. Al Rekaby è il leader della «Corrente nazionale democratica irachena», gruppo poco conosciuto nel Paese. Lo abbiamo incontrato in un caffè di Montparnasse. E questo è il suo racconto. Naturalmente senza possibilità di verifica.

Lei sostiene che la versione americana della liberazione è falsa. Non si è trattato di blitz ma di pressioni politiche presso le autorità religiose e presso altri gruppi in contatto con i rapitori. Lei sostiene anche che sarebbe intervenuto il presidente della Commissione Europea Romano Prodi. Quali elementi può fornire per queste affermazioni?
«E’ stata la polizia irachena a dare agli americani l’indicazione del luogo dove si trovavano gli ostaggi. La liberazione è stata una messinscena. La decisione di liberarli era già stata presa, grazie alla nostra mediazione. Mi occupo della vicenda da alcune settimane, da quando sono stato contattato dall’ufficio della Commissione Europea. Mi risulta che l’intervento della Ue sia stato suggerito dai vescovi caldei di Bagdad. In questo caffè mi sono incontrato con un funzionario di Bruxelles. Insieme siamo andati ad Amman in Giordania, due giorni prima della liberazione. Ormai le cose stavano andando nel migliore dei modi».

Ha mai avuto contatti diretti con Romano Prodi?
«No. Ho fatto questo viaggio ad Amman dieci giorni fa e ho fatto queste dichiarazioni il 9 giugno a un quotidiano giordano».

Può fare il nome del funzionario? Lei sa che questa circostanza è stata smentita?
«Posso solo dire che ci siamo incontrati a Parigi e che era un belga».

Ha mai sentito parlare di riscatto in denaro?
«Non c’è stato pagamento di riscatto. I rapitori non erano interessati ai soldi, ma a un risultato politico. Per loro era importante solo questo».

Lei conosce Abdel Salem al Kubaisi, il docente sunnita che, secondo Emergency, avrebbe avuto un ruolo nella trattativa?
«In questa vicenda si sono mosse molte persone. Anche il governo italiano sostiene di aver fatto molto. Le cose a Bagdad sono più complicate».

Lei sa perché è stato ucciso Quattrocchi?
«Credo perché fosse in possesso di documenti che provavano il suo lavoro per una società americana. Credo che questo abbia creato una spaccatura nel gruppo dei rapitori che poi si sono convinti che era meglio una conclusione positiva e umanitaria».

E che cosa può dirci di Salih Mutlak, commerciante, che, secondo fonti di Emergency, si sarebbe occupato della gestione di un presunto pagamento?
«Non so nulla di questo personaggio. Ripeto che non mi risulta che sia stato pagato un riscatto».

In sostanza né blitz militare né soldi, ma trattativa politica. Perché ne parla solo oggi?
«Ne ho parlato anche nei giorni scorsi. La mia organizzazione ha svolto un ruolo positivo. Tutto qui».

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