Da Corriere della Sera del 14/06/2004

Finita l’era monarchica dentro il centrodestra

di Massimo Franco

Le reazioni iniziali dei berlusconiani tendono ad accreditare la tesi del «non è cambiato niente, o quasi». Eppure, la sensazione dopo le prime proiezioni è che il voto di ieri archivi la lunga stagione del centrodestra «monarchico» iniziatasi nel 1994; e restituisca un governo nel quale la leadership di Silvio Berlusconi rimane forse indiscussa, ma comunque indebolita, se non lesionata. I numeri del governo indicano una tenuta: ma con un vistoso rimescolamento interno. Il regno elettorale del premier, ieri notte, è apparso di colpo insidiato. L’ipotesi di un nuovo governo, chiamato a riflettere i diversi equilibri della maggioranza, è la più probabile. Eppure, qualcuno ritiene che la soluzione sarà meno rapida di quanto non dicano i risultati. Forza Italia, si dice, non è abbastanza forte per dare ragione agli alleati minori, An e Udc, dopo averne frustrato le richieste per mesi. Il tentativo di umiliare la formazione di Marco Follini, il più critico nei confronti di palazzo Chigi, ha finito per rafforzarlo in modo perfino sorprendente. E il martellamento del premier contro «i partiti piccoli» è scivolato via sulla pelle degli elettori, senza produrre alcun effetto, anzi: ottenendone uno contrario. Per un leader che aspirava al 51 per cento per governare senza condizionamenti, la battuta d’arresto è consistente.

Perfino la soglia del 25 per cento, che avrebbe rappresentato una dignitosa tenuta, dalle prime proiezioni sarebbe stata mancata. Se a questo si aggiunge la prospettiva di un «effetto domino» negativo nelle amministrative, l’idea che sia cambiato poco o nulla si rivela, come minimo, riduttiva. Le gerarchie dentro la maggioranza, in realtà, sono cambiate: e non a vantaggio di Berlusconi, nonostante il suo protagonismo anche sulla scena internazionale, e il rilascio degli ostaggi italiani in Iraq a tre giorni dalle elezioni. Anzi, sembra si sia spostato l’intero baricentro del centrodestra.

La domanda è se il premier vorrà e potrà prendere atto della situazione; e avrà la capacità di assorbire il trauma di questa flessione e ripartire su basi nuove. Di fatto, se riconoscerà la metamorfosi da «maggioranza del presidente», a coalizione di partiti. Il cambio di alcuni ministri, che fino all’ultimo palazzo Chigi aveva scansato, definendo il rimpasto una parolaccia della vecchia politica, in apparenza diventa una soluzione obbligata. La resa dei conti rinviata al dopo voto si ripresenta adesso con An e Udc più forti: e decisi a chiedere «niente di più e niente di meno» di prima, nelle parole del portavoce di An, Ignazio La Russa. E’ un invito alla ragionevolezza che lascia affiorare la determinazione a ottenere quello che Berlusconi non ha concesso prima; e senza più timori reverenziali né paure di essere schiacciati dalla propaganda berlusconiana.

L’incognita sul ruolo dei lumbard , affacciatasi non appena Umberto Bossi è stato colpito da un ictus, oggi appare ingigantita, nonostante il risultato non negativo che le proiezioni hanno dato alla Lega. L’«asse del Nord», pietra miliare dei primi tre anni di legislatura grazie alla sintonia fra Bossi, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e palazzo Chigi, esce dal voto di ieri e l’altroieri ridimensionato, se non superato. Se il capo della coalizione non sarà in grado di fare concessioni sostanziali, il rischio potrebbe diventare quello di una presa di distanza crescente degli alleati. Il fatto che nel centrosinistra anche la lista Prodi non brilli come speravano i promotori, per Berlusconi è una consolazione piccola piccola.

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