Da Corriere della Sera del 19/06/2004
Originale su http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2004/06_Giugno/19/m-allam.shtml

La cultura della morte

di Magdi Allam

È l'apoteosi della cultura della morte. Lo sgozzamento, la decapitazione e lo scempio del cadavere dei «nemici dell'islam» sono stati elevati da Al Qaeda a strumento principe della sua guerra santa per costringere i «miscredenti» ad abbandonare l'Arabia Saudita, l'Iraq e l'insieme dei Paesi musulmani. Le terrificanti immagini della testa mozzata dell'americano Paul Marshall Johnson, rapito a Riad lo scorso 12 giugno, suonano come la più barbara violazione del valore della sacralità della vita, il fulcro della nostra civiltà. Nella mente folle dei suoi assassini si tratterebbe di una condanna eterna, perché il corpo mutilato di un «infedele» non si ricomporrebbe nel giorno del Giudizio universale.

Dopo le autobombe e i kamikaze, il terrorismo islamico è passato a un livello più alto di ferocia nei confronti della singola persona. Atto disumani del tutto consoni a un'ideologia che legittima il massacro indiscriminato dei civili, per il semplice fatto di far parte di una società tacciata come «atea» o «apostata».

E' l'arma più temibile e di maggior successo dei terroristi. Perché garantisce la diffusione e il radicamento della paura tra le popolazioni occidentali, grazie alla loro eccezionale capacità di manipolazione dei media, in particolar modo di Internet.

Un'arma in grado di scatenare sentimenti di impotenza e umiliazione, di provocare atteggiamenti di resa e di sconfitta.

Finendo per mettere l'opinione pubblica, preoccupata della salvaguardia della vita dei propri cari, contro i governi occidentali che devono tutelare l'interesse nazionale nonché l'ordine mondiale.

Ciò che spaventa è che i terroristi sauditi si muovono in simbiosi con l'ideologia e la cultura dominante nel Paese. Per decenni la famiglia reale promosso la versione estremista wahhabita dell'islam, ha favorito la diffusione di una cultura fanatica, intollerante e violenta. Non è un caso che Osama bin Laden e 15 dei 19 dirottatori-kamikaze dell'11 settembre siano sauditi.

Questi terroristi sanno di poter contare sulla simpatia e sul sostegno di ampie fasce popolari che sono state indottrinate alla cultura della «guerra santa» e del «martirio». Non sono estranei al tessuto sociale e culturale, bensì parte integrante di esso. E’ il frutto di una strategia folle della monarchia che ha trasformato la stessa Arabia Saudita in un ingovernabile nido di vipere. Il principe ereditario Abdallah, che finora non è stato attaccato di persona da bin Laden, starebbe trattando una soluzione di compromesso. Ma è difficile accordarsi con chi disconosce i valori fondanti della comune civiltà dell'uomo, con chi mira a imporre un potere teocratico, sanguinario, aggressivo e espansivo.

Preoccupa inoltre il fatto che i terroristi di Al Qaeda stiano riuscendo nell'impresa di scatenare un'offensiva congiunta in Iraq e in Arabia Saudita, stringendo d'assedio il Kuwait. I tre Paesi detengono complessivamente metà delle riserve internazionali di greggio. Il quotidiano Asharq al Awsat ha rivelato ieri che quattro terroristi kuwaitiani e uno saudita si sono fatti recentemente esplodere in attentati suicidi a Bagdad. Un patto di sangue che dovrebbe suggellare il comune destino dell'intera regione del Golfo.

L'unica nota positiva è il cambiamento di tono da parte dei media arabi legati al governo saudita. Come la televisione Al Arabiya. Ieri il conduttore di un talk-show serale ha detto: «Questo terrorismo è il male assoluto, basta con il riversare tutte le cause dei nostri mali sulla questione palestinese». L'ospite in studio Ayman al Saqdi, direttore della tv giordana, ha affermato: «I terroristi sono nostri nemici ancor più di quanto non siano nemici dell'Occidente, hanno ucciso più musulmani che occidentali». Potrebbe essere l'inizio di una riscossa. Un'impresa ardua. Forse è già tardi per impedire la catastrofe.

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