Da La Repubblica del 17/04/2004

Nella Grande moschea di Roma tra diffidenza e identificazione con la società italiana ferita

E nel venerdì di preghiera ora spunta anche il tricolore

Ma oggi non è facile pronunciare sermoni che accontentino tanto i fedeli quanto la Digos
Misteri della guerra al terrorismo: nella lista di 'associati a Bin Laden' 60 residenti in Italia

di Guido Rampoldi

ROMA - Nel tempo del sospetto la Grande moschea di Roma riunisce neppure cinquecento fedeli, dei trentamila che potrebbe accogliere tra i suoi marmi bianchi al margine d' una pineta. E anche il piccolo bazar che sorge ogni venerdì davanti alle cancellate adesso è sul chi vive. Il marocchino Khalid espone su due tavoli una mercanzia intonata alla sua folta barba islamica, libri di dottrina coranica e cassette di sermoni pronunciati da famosi alim, dotti musulmani. Ma non chiedetegli uno di quei nastri che i devoti della setta ultra-radicale Takfir, Anatema, ascoltano in riunioni segretissime per trovarvi la conferma teologica che anche i musulmani moderati meritano d' essere ammazzati come eretici: «Quella roba non è Islam, e se la polizia me l' avesse trovata quando m' ha rovesciato la casa, oggi sarei in galera come terrorista». Non chiedete al suo dirimpettaio palestinese se possa procurarvi i sermoni registrati cari al «gruppo di discussione Salafi Islam», una misteriosa carboneria romana di frustrati che cerca rivalse nell' odio contro cristiani ed ebrei predicato dalla dottrina salafita: quella merce nessuno vuole trattarla, tantomeno un palestinese che, ci dirà un suo conoscente, è tenuto d' occhio dalla Digos. E soprattutto non chiedete all' imam della Grande moschea, l' unico teologo islamico in Italia che fondi la sua scienza su una laurea nell' università al Azam del Cairo, di sfiorare nel suo sermone la bolgia irachena. Dopo il rimpatrio del suo predecessore, destituito in giugno a causa d' un' omelia troppo politica, il nuovo imam evita ogni argomento in grado di infiammare l' uditorio e suscitare l' attenzione della polizia, che ha orecchie qui come in dozzine di moschee italiane. Così oggi l' imam ammonirà i fedeli, tutti rivolti con la mente all' Iraq, ad evitare il peccato dell' avarizia. Nel tempo del sospetto per molti imam non è facile pronunciare sermoni che accontentino tanto i fedeli quanto le Digos. Cosa ha detto l' imam Khaldi nella moschea di Centocelle? «Che ci dispiace per l' uccisione di Fabrizio Quattrocchi. Che se è giusto combattere per cacciare l' occupante, è terrorismo uccidere ostaggi. Ho ricordato i principi della fede a tanti fratelli che fraintendono, accecati dalla rabbia per quanto vedono in tv». Questa doppia linea - è islamica la guerriglia irachena ma anti-islamico ammazzare ostaggi e civili - ieri accomunava la grande maggioranza delle moschee italiane, moderate e meno moderate. Alcuni imam l' hanno espressa in modo flebile, come si trattasse d' una scelta tattica per alleggerire la pressione della polizia; altri con sincera veemenza, fino a trasformarla in un appassionato appello per la liberazione degli ostaggi (per esempio a Torino, a Roma, oppure nella lettera ai sequestratori firmata dall' Associazione donne musulmane). Ma in genere l' assassinio di Fabrizio Quattrocchi sembra aver rivelato alle moschee una faccia della 'guerra santa' che preferivano ignorare, e cioè quanto la dottrina islamica chiama zulm, la brutalità ingiusta, insomma il terrorismo. Questa elaborazione è stata un po' tormentata. Subito dopo il sequestro dei quattro italiani avevano parlato con Mohamed Nour Dachan, il cardiochirurgo d' origine siriana che guida l' Unione comunità islamiche. Dachan si stava chiedendo se lanciare un appello per la liberazione degli ostaggi. Ma era dubbioso: «Fossero stati militari, o personale di organizzazioni umanitarie... ma se risultasse che sono mercenari, come reagirebbe la base?». Poi l' uccisione d' un ostaggio ha spostato i termini del dilemma. Ha provocato non solo ripulsa per un assassinio così vile, ma anche identificazione nella società italiana ferita da quel crimine, come ieri ci confermava, davanti alla Grande moschea di Roma, anche la bandiera tricolore esposta da un palestinese dietro la sua bancarella. Allo stesso tempo la tragedia degli ostaggi ha riacutizzato i timori dei musulmani: «Nella periferia romana ora non è raro sentire discorsi feroci, cacciamo i gli islamici, togliamoli di mezzo perché sono tutti uguali», ci diceva un neo-convertito all' islam, la fede della moglie tunisina. E come altri, dava la colpa ai media: «Parlano di noi come se fossimo tutti terroristi potenziali». «Il sospetto si sta diffondendo», racconta Dachan, il presidente dell' Ucoi. «Lo percepiamo da cose in apparenza irrilevanti. Ammiccamenti, battute che mettono in scherzo le paure che suscitiamo». «Voi italiani ci guardate di traverso - mi dice un venditore di Corani marocchino - perché sapete poco del mondo e nulla dell' Islam». Se è così, è difficile negare che anche molti musulmani praticanti abbiano difficoltà a leggere con chiarezza questo tempo, e soprattutto quanto avviene in Iraq. In genere si abbeverano al Manifesto, a Liberazione o ad al Jazeera, per i quali la guerriglia è nobile «resistenza»; e reinterpretano questa convinzione in chiave islamica. Così la «resistenza» diventa jihad, guerra santa, come sostiene per esempio il segretario dell' Uccoi, Hamza Piccardo, però smentito dal presidente della stessa Unione, Dachan, secondo il quale la lotta in Iraq è legittima ma non «santa». Alcuni imam, per esempio Khladi, confessano di chiamarla jihad senza saper bene perché. Cos' è in genere la teologia islamica in Italia: nebbiosa, abborracciata. «Spesso l' imam d' una comunità è semplicemente l' unico in grado di leggere e scrivere», ci dice il musulmano Giulio Soravia, docente di arabistica all' università di Bologna. Dal 1987 Soravia si batte inutilmente per la creazione d' un Accademia teologica in Italia. Mancando teologi autorevoli in grado di indirizzare gli islam italiani, alcuni imam radicali, ignorantissimi ma veementi, possono facilmente convincere immigrati ancor più impreparati. Ma per quanto estremisti siano i predicatori di alcune moschee, nel giudizio dei nostri interlocutori islamici è assai improbabili che oggi tra loro vi siano terroristi. Per una questione pratica: le moschee oggi sono tutte 'monitorate' dalle Digos. Invece il serbatoio potenziale del terrorismo andrebbe cercato nell' islam 'sommerso' , in quei gruppi minuscoli e catacombali che si riuniscono nelle case, in assoluta segretezza, per praticare la fede stralunata dei salafiti, araba, o dei Takfir, nordafricana. Una musulmana che ha sfiorato quell' area ci espone due casi. Una donna da vent' anni in Italia, famiglia poverissima, istruzione zero; vedova del primo marito, un convertito italiano, si risposa, divorzia, è infelice, va in pellegrinaggio alla Mecca e quando torna, è una forsennata. L' altro neo-salafita era un ragazzo timidissimo, figlio d' un insegnante, classe media. Prega, digiuna, frequenta in Internet un forum islamico. Poi la virata. Diventa un militante radicale, sostiene che anche i musulmani moderati vanno «sradicati» perché taghout, diavoli, e rifiuta qualsiasi compromesso con la società occidentale, in quanto nemica. Secondo la musulmana che ci racconta queste traiettorie, le persone in questione sono diventate «automi che hanno rinunciato a pensare. Non hanno più una coscienza morale. E questo li rende manovrabili per qualsiasi azioni, anche la più sinistra». Un sociologo tunisino e islamico, Abdessattar, ci spiega che le conversioni all' islam jihadista (cioè devoto alla guerra santa ad oltranza contro ebrei, cristiani e musulmani moderati) in genere nascono dalla crisi personale e dal pentimento d' un musulmano che prima aveva un rapporto blando con la fede. «Spesso non durano a lungo. Ma se in quel periodo la persona cade in mano ad un gruppo radicale, è persa». Il più noto guru dell' area jihadista è il teologo palestinese Abu Qatada. Qatada vivrebbe a Londra, come tutto il piccolo gotha del pensiero terrorista. Non è chiaro per quali patti o motivi il governo Blair sia così ospitale: però è un fatto che finora la Gran Bretagna non è mai stata colpita dal terrorismo. Non meno sorprendente è quanto scopriamo leggendo la norma 524/2004 dell' Unione europea, dove figura una lista di islamici «associati con Bin Laden, la rete al Qaeda e i Taliban». Tolti quelli con nazionalità afgana, restano 162 nomi di arabi, asiatici e nordafricani, incluso lo stesso Bin Laden. Di questi 162 ben 60, cioè oltre un terzo, sono indicati come residenti in Italia, in genere con regolare indirizzo. Perché l' Italia è la nazione prediletta dai presunti affiliati di al Qaeda? E la loro presenza rappresenta per noi un rischio oppure un' ambigua assicurazione contro attentati? Misteri della cosiddetta 'guerra al terrorismo'.

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