Da La Vanguardia del 27/06/2004

Zapatero: «Mai più un altro Iraq»

di José Antich

JOSÉ Luis Rodríguez Zapatero festeggerà il prossimo 4 agosto il suo primo compleanno da premier. Al potere da meno di cento giorni, il leader socialista ripassa in questa intervista il suo breve ma intenso mandato, progetta i suoi piani futuri ed espone nitidamente la rotta che desidera per il suo Paese, la cui linea maestra è il progresso economico e sociale, accompagnato da riforme che diano grande stabilità, per una generazione, a questa «Spagna Plurale».

Sono passati due mesi da quando lei è diventato premier. Non è molto tempo, ma basta per guardarsi intorno e farsi un'idea di ciò che è più urgente, di ciò che sarà più difficile e di quello che forse non si potrà fare.
«In questi 75 giorni mi sono concentrato sul progetto del partito socialista, ho cercato di metterlo in moto sia in politica estera sia nella rotta economica e sociale interna per instaurare un clima di dialogo politico aperto».

Lei si è iscritto al partito socialista molto giovane, nei primi anni della transizione (dalla dittatuta franchista alla democrazia, ndt). Come militante ricorderà che nella memoria collettiva della sinistra c'era un’attenzione ossessiva per i cosiddetti «poteri di fatto». Ora le sue due prime iniziative da premier sembrano averne irritati due: gli Stati Uniti, per il ritiro delle truppe spagnole dall'Iraq, e la Chiesa, per la sua decisione di limitare l'insegnamento della religione cattolica, legalizzare i matrimoni gay, riconoscere agli omosessuali la possibilità di adozione e ampliare le condizioni per l'aborto.
«In una società democratica avanzata, l'unico “potere di fatto” è il popolo. Ci sono diverse istanze che hanno rappresentatività e influenza, ma la sovranità dei cittadini si esprime nel Parlamento e nella sua maggioranza, che prendono le decisioni e indicano le relazioni sociali e la posizione della Spagna nel mondo. E’ curioso che a considerarsi più patrioti siano proprio quelli che si sono sentiti inquieti e hanno criticato una decisione autonoma e sovrana del governo, quella del rimpatrio della truppe dall'Iraq. Naturalmente, in questi due mesi e mezzo dacché sono al governo, ho preso le decisioni in piena libertà e autonomia».

Nel caso concreto delle adozioni da parte delle coppie omosesessuali, lei certamente sa che l'opposizione non arriva solo dal Vaticano. Importanti politici di sinistra e laici, come l'ex premier francese Lionel Jospin, si oppongono a tale riconoscimento. Qual è la sua opinione personale a questo proposito?
«La mia posizione è chiaramente favorevole e si inserisce all'interno di quello che potremmo chiamare diritto alla libertà personale, a una concezione della famiglia pluralistica e aperta. Perciò sono decisamente favorevole a una cornice legale per le persone con un orientamento sessuale gay che vogliano vivere in coppia. Ignorare questa realtà significa ignorare il diritto di molte persone a essere felici. E’ un diritto che non provoca alcun problema a chi fa un’altra scelta sessuale e ha un altro modello di famiglia. Non c’è imposizione di convinzioni non condivise. Questa è precisamente la garanzia di una convivenza libera, ovviamente in una prospettiva di laicità».

Torniamo al ritiro dall'Iraq. In un parte della società spagnola e europea esiste un profondo anti-americanismo che porta quasi a desiderare che gli Stati Uniti falliscano in Iraq, ignorando che tale sconfitta avrebbe conseguenze disastrose per l'Occidente.
«Io non provo alcun sentimento anti-americano. Credo che gli Stati Uniti siano un Paese con una profonda tradizione democratica e che, come ogni grande Paese, nella sua traettoria commetta errori e riscuota successi. Secondo me, l'Iraq è stato un errore palese e, soprattutto, ha provocato una rottura sui modi di portare avanti un intervento militare. Una rottura che non si deve ripetere. Questa è la lezione che dobbiamo trarre dall’esperienza di questi mesi. Il mio desiderio è quello di vedere l’Iraq in una condizione di normalità. E’ già trascorso abbastanza tempo dall'intervento armato e non mi pare che la situazione si incammini in una direzione positiva».

La Spagna ha ritirato le truppe dall'Iraq (1.300 militari, ndt), ma adesso rafforzerà quelle distaccate in Afghanistan (125 soldati, ndt) e collaborerà alla missione di Haiti. Che differenza c'è tra questi interventi, adesso che l'Onu ha legittimato l'occupazione militare dell'Iraq?
«Tra l'Afghanistan e l'Iraq ci sono profonde differenze. L'Afghanistan è stato un intervento militare legittimato dalle Nazioni Unite, nel rispetto della legalità internazionale e con l'appoggio quasi unanime della comunità internazionale. In Afghanistan sono presenti quasi tutti i Paesi europei importanti: la Francia ha mandato 500 soldati, la Germania 1.400. Inoltre in Afghanistan, il territorio di Bin Laden e dei Taliban, si combatteva davvero contro il terrorismo internazionale. In Iraq non si è rispettata la legalità internazionale, non si è rispettato il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, si è agito in modo da dividere la comunità internazionale. E, finora, nessuno ha dimostrato che ci fosse un rapporto con il terrorismo. Anzi, pare proprio il contrario, come ha evidenziato la Commissione d'Indagine dell'11 settembre negli Stati Uniti. Gli argomenti messi sul tavolo per l'intervento in Iraq erano pieni di falsità. In ogni modo, se il mio governo deciderà di rafforzare la presenza in Afghanistan come ci viene richiesto, sarà solo dopo aver consultato il Parlamento. E il nostro contributo sarà limitato nel numero degli effettivi, molto limitato».

I grandi esperti internazionali di Al Qaeda, come il professore cingalese Rohan Gunaratna, sostengono che Madrid ha commesso un errore ritirando le sue truppe in Iraq, che la Spagna era già un obbiettivo dei terroristi prima della campagna irachena e che continua a esserlo. Qui in Spagna, invece, non mancano coloro che ritengono che sia stato il governo popolare di Aznar a fare della Spagna un obbiettivo dei terroristi con la famosa fotografia del premier alle Azzorre in compagnia del presidente americano George Bush e del premier britannico Ton yBlair. Qual è la sua opinione?
«Il rimpatrio dei militari dall'Iraq è un problema di principio e un compromesso politico. Per ragioni di principio, finché io sarò presidente del Consiglio, la Spagna non parteciperà a una guerra illegale, che non abbia l'avallo delle Nazioni Unite. Non appoggerà né asseconderà un intervento di quel tipo. In secondo luogo, avevo detto chiaramente in campagna elettorale che le nostre truppe si sarebbero ritirate se le Nazioni Unite non si fossero fatte carico del controllo militare e politico della situazione irachena. Come tutti sanno e hanno potuto constatare, questo non è successo. Quando ho preso la decisione avevo già il pieno convincimento e la sicurezza che non sarebbe successo. Per questo ho preso la decisione il primo giorno del mio mandato: volevo evitare qualsiasi tipo in inquietitudine, sia in relazione alle nostre truppe sia in ambito internazionale. Il terrorismo internazionale può colpire qualsiasi Paese, è evidente, e lo ha già fatto più volte. Ma la risposta al terrorismo deve essere la messa in comune dell’intelligence, il rafforzamento del lavoro delle polizie e della giustizia e, naturalmente, la lotta in quelle regioni che, senza alcun dubbio, facilitino il radicarsi e radicalizzarsi della violenza».

Lei ritiene che la Spagna sia meno esposta al terrorismo islamico per aver ritirato le truppe dall'Iraq?
«Credo che qualsiasi affermazione in questo senso sarebbe imprudente. Insisto: il terrorismo internazionale può provocare un attacco, un massacro, in qualsiasi luogo, come ha già dimostrato. E, nell'ambito della comunità internazionale dei Paesi democratici, è molto difficile ipotizzare quale Paese sia o no un obbiettivo. Tutti dobbiamo lottare e tutti dobbiamo essere preparati per questa lotta».

Il suo governo ha completamente ridisegnato la politica estera del precedente governo, non solo nel vespaio iracheno, ma anche nelle alleanze in Europa. Tuttavia, l'elevato indice di astensione nelle ultime elezioni fa affiorare un crescente euroscetticismo tra la popolazione. Lei si ritiene capace di portare avanti un referendum sulla nuova Costituzione europea?
«Il governo farà un grande sforzo di informazione, di spiegazione, di stimolo e dibattito sulla Costituzione europea, che non è una meta bensì l'inizio di un percorso importantissimo. E’ una Costituzione buona per la Spagna e buona per l'Europa. E’ una Costituzione che porta l'impronta spagnola e dimostra come l'Europa sia capace di allargarsi e al contempo di recuperare la rotta. La responsabilità del governo e delle forze politiche comporta incentivi e stimoli attraverso la massima informazione, e poi la partecipazione. L'Europa deve camminare con i cittadini e i cittadini si mettono in marcia solo quando si riesce a far capire loro l’importanza della posta in gioco».

Quando si terrà il referendum?
«Bisogna parlarne con i gruppi parlamentari. Non voglio condizionare nè mostrare la mia preferenza personale o quella del governo. Credo che ragionevolmente potremmo fissare la data per la fine di quest'anno o l’inizio del prossimo».

Quali sono i suoi rapporti con il premier Silvio Berlusconi?
«Il mio prossimo viaggio a Istambul, per il vertice della Nato, sarà il dodicesimo nei poco più di due mesi dacché sono premier. La Spagna sta avendo un’importante presenza internazionale. In uno di quei viaggi, lo scorso 12 maggio, sono stato a Roma. Lì ho avuto una lunga conversazione di lavoro con Silvio Berlusconi, durante la quale gli ho confermato l'appoggio spagnolo affinchè sia Roma la città dove si celebra la firma della Costituzione Europea. E ho ribadito a Berlusconi, come ho fatto anche a Parigi, Berlino, Lisbona, Londra o Casablanca, che le buone relazioni tra i nostri due Paesi sono strategiche, stanno al di sopra di qualsiasi cambiamento di governo. Con il premier italiano ho avuto una conversazione molto interessante. Sia prima che dopo il nostro incontro ho detto pubblicamente che, per quel che concerne l'Iraq, io rispetto la posizione degli altri governi e soprattutto di vicini, amici e alleati tanto prossimi come l'Italia. Io rispetto la posizione di Berlusconi allo stesso modo in cui ho chiesto, e ottenuto, che ci sia rispetto per quella spagnola. Il rimpatrio delle truppe è stato approvato dalla grande maggioranza dei nostri cittadini. Gli spagnoli e gli italiani si piacciono reciprocamente. Come Paesi latini, meridionali, mediterranei, abbiamo molti interessi comuni. Per quel che riguarda le amicizie personali, mi sto facendo molti amici nei miei viaggi all'estero o nelle visite che ricevo a Madrid. Il sorriso, il dialogo e l'atteggiamento personale sono importanti nella relazioni internazionali. E non sono incompatibili con la difesa degli interessi nazionali».

I risultati delle europee hanno ribadito che la vittoria elettorale socialista delle politiche del 14 marzo scorso non è stata casuale. Inoltre, hanno dimostrato come lo zoccolo elettorale dei popolari sia solido, come avevano già dimostrato i nove milioni di voti ottenuti alle politiche.
«Io constato che il partito socialista ha vinto tre elezioni in un anno: le amministrative, le legislative e le europee. Sia nelle politiche che nelle europee ci siamo piazzati intorno al 42-43 per cento, una percentuale molto superiore a buona parte delle tappe elettorali dei socialisti negli Anni 80. Persino delle politiche dell'89 e del '93, che vincemmo. E tutto questo tenendo conto che quattro anni fa i socialisti avevano dieci punti in meno dei popolari. Credo che sia stato uno dei cambiamenti più intensi e rapidi che si sono prodotti nella fiducia che i cittadini spagnoli hanno dato a una forza politica o a un'altra dal dopo Franco. Questo è il bilancio. Il partito socialista governa con ampio appoggio della cittadinanza, con più del 42 per cento dei voti, il che significa quasi uno spagnolo ogni due che sono andati a votare, con una altissima partecipazione. Inoltre, abbiamo una forza parlamentare abbastanza evidente (164 seggi alla Camera, quando la maggioranza è 176, ndt) perchè tutti i gruppi, tranne i popolari, sono ben disposti a collaborare con noi. In ogni caso, io sono contento che il leader popolare Mariano Rajoy sia contento anche se ha perso le ultime due elezioni. Io sono leader da tre anni, sono passato per tre elezioni e tutte e tre hanno dato la vittoria ai socialisti».

L'Eta non fa attentati da mesi. Il governo contempla la possibilità che l’organizzazione terrorista basca stia progettando l'abbandono della violenza?
«Non ci consta nulla del genere, ma io ho l’intima certezza che l’idea della rinuncia abbia conquistato molto coscienze tra i violenti e tra chi appoggia la violenza. Innanzitutto, perchè costoro sanno che mai conseguiranno i loro obiettivi con la violenza, provocando dolore. E in secondo luogo perchè c’è sempre meno gente nella società basca disposta a comprendere o ad assecondare la violenza. L'Eta ha una strada davanti a sé e quella strada è l'abbandono delle armi. L'Eta ha davanti a sè una sola via di uscita, che è la rinuncia alla violenza. Quando lo farà, farà senza dubbio un grande favore al popolo basco, alle aspirazioni dei Paesi Baschi. E, naturalmente, l'Eta farà un gran favore all'idea più importante per cui si può lottare in una società, che è la pace».
Annotazioni − Articolo apparso su La Stampa del 27/06/2004.

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