Da La Repubblica del 05/07/2004

Secondo i dati dell´Ocse, nel 2003 Pechino è balzata in testa alla classifica con 53 miliardi di dollari contro i 40 arrivati negli States

Gli investimenti cambiano rotta ora la Cina è più ambita degli Usa

Storico sorpasso nelle mete preferite dalle multinazionionali

Le aziende non vanno più nel gigante asiatico solo per tagliare i costi produttivi, ma anche per sfruttare l´enorme mercato locale
Il fascino che il boom economico cinese esercita sugli americani è dettato dalle analogie con la propria storia

di Federico Rampini

SAN FRANCISCO - «Quando la Cina si sveglierà il mondo tremerà»: questa profezia di Napoleone - che la formulò dopo aver letto nel 1816 la relazione di viaggio del primo ambasciatore inglese in Cina, Lord Macartney - sembra destinata ad avverarsi oggi nella dimensione economica, prima che in quella militare a cui pensava l´imperatore. L´Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) che riunisce i 30 maggiori paesi industrializzati, rivela un sorpasso clamoroso: gli Stati Uniti non sono più la prima destinazione degli investimenti dal resto del mondo, sono stati spodestati proprio dalla Cina come mèta preferita delle multinazionali. Le statistiche Ocse includono la creazione di nuove fabbriche, gli investimenti per potenziare impianti già esistenti, e l´investimento in aziende locali attraverso fusioni e acquisizioni. Il 2003 è stato l´anno di un silenzioso terremoto nelle gerarchie mondiali: la Cina è balzata al primo posto assoluto, attirando 53 miliardi di dollari di investimenti stranieri, contro 40 miliardi per gli Stati Uniti (il dato non include gli investimenti puramente finanziari, cioè l´acquisto di azioni, obbligazioni e buoni del Tesoro: in quel campo Wall Street conserva la supremazia mondiale mentre la Cina ha un mercato che si è aperto solo di recente). L´economista dell´Ocse Hans Christiaensen sottolinea anche una novità qualitativa: l´ondata di investimenti in Cina non è più trainata dall´obiettivo di produrre a basso costo per riesportare in America o in Europa; la priorità oggi è andare in Cina per sfruttare le potenzialità del consumo locale. E´ impressionante l´ampiezza dello scarto che si è scavato fra la Cina e gli altri grandi paesi emergenti. A fronte dei 53 miliardi di dollari di investimenti esteri in Cina, l´India ha visto affluire solo 4 miliardi, la Russia uno. L´irresistibile attrazione verso la Cina non è indolore. L´Europa ha visto crollare del 23% in un anno gli investimenti esteri entro le sue frontiere: il minore interesse delle aziende per il Vecchio continente significa una perdita di capitali e di posti di lavoro.

L´ascesa della Cina ispira apprensioni ma esercita anche un fascino potente, ben visibile negli Stati Uniti. Il magazine domenicale del New York Times è uscito ieri con un´inchiesta di copertina intitolata «The Chinese Century», il Secolo Cinese. La tesi è: il Novecento è stato definito il «secolo americano», il XXI secolo sarà segnato dal definitivo emergere della superpotenza asiatica. «Se c´è un paese al mondo destinato a soppiantare il ruolo degli Stati Uniti nell´economia globale, questo paese è la Cina» scrive Ted Fishman. Gli americani appaiono ipnotizzati dal ritmo della modernizzazione cinese, che ispira analogie con l´epoca gloriosa della prima industrializzazione degli Stati Uniti, dello «spirito di frontiera», della costruzione di un nuovo mercato attraverso grandi progetti come le ferrovie transcontinentali che alla fine dell´Ottocento unirono la East Coast e la West Coast. La Cina - osserva il New York Times - ha 15.000 cantieri stradali aperti, che aggiungeranno entro poco tempo 162.000 chilometri di autostrade, quattro volte il giro della terra all´altezza dell´equatore.

Dal 1978 a oggi il Prodotto interno lordo cinese è quadruplicato, segnando il più grande progresso economico della storia: mai una così grande parte della popolazione mondiale si era sollevata al di sopra della soglia della povertà in così breve tempo. Per il valore del suo Pil la Cina ha già superato nella classifica delle nazioni industrializzate l´Inghilterra e l´Italia (cosa che rende ormai inspiegabile la sua esclusione dal G-7), ha raggiunto la Francia e sta puntando verso la Germania. In un arco di tempo sorprendentemente corto è passata dall´essere pressoché assente dal commercio mondiale - sotto il maoismo - all´attuale terzo posto fra le potenze esportatrici: dietro Stati Uniti e Germania, per ora, ma già davanti al Giappone.

Naturalmente i trend del passato non si possono estrapolare con certezza verso il futuro. I pessimisti elencano una lunga serie di cose che possono «andare storte» e quindi rallentare o addirittura far deragliare il boom cinese. La bolla speculativa immobiliare di Pechino e Shanghai (come quella di New York e San Francisco) potrebbe scoppiare per effetto di una stretta monetaria. Il sistema bancario cinese potrebbe entrare in crisi per i troppi crediti incagliati verso aziende di Stato decotte. Le proteste dei cittadini di Hong Kong che chiedono elezioni democratiche, unite alle tensioni sociali fra città e campagna per le crescenti diseguaglianze, potrebbero sfociare in una fase di instabilità politica. Una vittoria di John Kerry alle presidenziali di novembre potrebbe portare, su pressione dei sindacati Usa, a misure protezionistiche contro il made in China. Taiwan e la Corea del Nord sono due perenni focolai di tensione regionale. Ma l´elenco di tutte le catastrofi possibili e immaginabili non deve far perdere di vista la resistenza dei trend di lungo periodo. Sempre giocando sul parallelo tra la Cina di oggi e l´America di ieri, il New York Times cita la constatazione di Tom Saler: «Ventuno recessioni, una Grande Depressione, due crac di Borsa e due guerre mondiali non riuscirono a fermare la crescita dell´economia americana nel secolo scorso, passata da un Pil di 18 miliardi a 10.000 miliardi di dollari: anche depurato dall´inflazione, è un incremento di 27 volte. La Cina è avviata verso una crescita simile in questo secolo».

Il fascino che il boom cinese esercita sugli americani non è solo dettato dalle analogie con la propria storia. In un paese dove la cultura dell´economia di mercato è ben radicata, a fianco alle tensioni protezionistiche e alle proteste contro la delocalizzazione dei posti di lavoro, molti vedono i benefici che lo sviluppo cinese sta portando al resto del mondo. E non solo alle multinazionali americane che raccolgono ricchi profitti dai loro investimenti sull´altra costa del Pacifico. Il consumatore è il primo a sapere che cosa significa «made in China». Significa un Dvd-player da Wal Mart a 200 dollari. E´ il più potente motore per il contenimento dell´inflazione e la difesa del potere d´acquisto.

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